Del diletto del dialetto
Se attaccassi con il dire che “Una lingua è un dialetto con un esercito ed una marina” direi na bella fregnaccia, ma se nello stesso tempo mi avventurassi a ribadire che il dialetto non assolda militanti direi un’altra castroneria. Vi basti sapere che, per come la vedo io, una singola unità gergale, o un singolo lemma paesano, è un lesto fante, l’insieme degli idiomi salentini una gran coorte, mentre, l’inconfondibile pugliese, un’intera legione insediata nei castra che accampa diritti sulla terra - una terra natia di genius loci -, una compagine pronta a difendere il proprio territorio: “terribilis est logos iste”, vale a dire la “parola”, «un pitale pieno di gioielli» e, la sua pronunciata e complessa smaterializzazione, il libro: la trascrizione e la morte del verbo, un diamante di carta.
Se vi dicessi anche che il dialetto è per me chiricus vagans un territorio sacro senza confini, una cattedrale incompiuta, una dimora domestica affollata di famuli e familiari, un non-finito carico di materia da cavare in continuo, un morfema amorfo che ancora evolve e che nello stesso istante resta schiavo dentro un preciso significato che diventa significante nel momento in cui diviene altro da sé, una matassa, un garbuglio, un ricco incarto di millanta lemmi e dilemmi, una trama di riferimenti, un mosaico di sentimenti, di simbionti, di gente che si lega, si relaziona e vive gli stessi sapori, umori e rumor(i) degli stessi territori, non direi certo una genia-lata. Oppure sì, una genialata di suoni icastici ed ironici, un marasma che pressappoco vale l’intero patrimonio umano, il Logos, l’AUM che al suo interno nasconde il pleroma, le Metamorfosi che dal genoma aploide, muta nella forma polisemica apolide del me apulo che morfica in una apuleiana magia. La magia di una natura imperturbabile che lavora con lentezza, che cambia di continuo e si riposa, che si apre al nuovo e si placa, che cresce e si riplasma, che guarda al futuro e ritorna all’antico, che corre e si corregge, l’eterno simbolo della tranquillitate meridionale.
Un’atarassia, un mondo sapiente pregno di murge e ricchiteddi, di dolmen e mieru, di Ionio e gnimmarieddi, di Barocco e fichi cucchiati, di castelli e pettuli, di ulivi e pappamusci, di suppenne e pucce, di trulli e frise, di masserie e pizzica pizzica, di rapper e panzerotti ..., insomma una ricca armonia e solarità mediterranea, un inturcinamento territoriale tra moderno e tradizione in una mescidanza a me patria, che in una sola parola è “uno «gliummero»” un groviglio di concause caro non solo a don Ciccio Ingravallo.
Una aretè locale intrisa di una parlata molto pronunciata, di idiomi di creature e di cose, un poliedrico rebus che è molto complicato leggere e soprattutto scrivere, ma che è un puro diletto parecchio difficile da ridisegnare, o meglio, da res-pingere, perché è l’istantanea di un disegno divino, un flusso immaginario astruso, un parlottio da dormiveglia, una veglia, una polisemia che si contrappone al caos, alla cosa che, guarda caso, con un altro salto, è molto affine a un ibridismo o forestierismo inesauribile, quasi un cosmo ri-creativo, un fiume in pena, pieno di flussi saltellanti con un incedere misterioso e confluente in un incongruente zeugma, un Finnegames: enjoyce!
Zuzzuviate gente, zuzzuviate.
Zuzzuviate gente, zuzzuviate.
In copertina e sul dorso: elaborazioni del disegno La Colombe bleue
di Pablo Picasso (1961) e della litografia Grasshopper
di Maurits Cornelis Escher (1935).
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Postfazione
inserita nel libro
ZUZZUVIU - Racconti apodittici
Proprietà letteraria riservata
© Franco Chirico, 2018
Copyright © INGEGNI Edizioni
COLLANA La Ninninedda
Prima edizione: 2018
Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore.
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