sabato 7 aprile 2018

Recollection Room




Gli ultimi istanti dell’esistenza non è possibile condividerli con nessuno, eppure sono lì, in eterno, tra le pieghe dell’universo, carichi di paure e di gioie. Risplendono nell’infinito oceano delle emozioni e dei ricordi, e ognuno di essi resta inabissato nel buio più profondo, nel silenzio del tempo. Solo quando sei sicuro di farli venire a galla, riemergono improvvisi come un’enorme balena bianca. Devi essere abile ad arpionarli al volo per riviverli, specialmente se non sono i tuoi. Non ha importanza su quale navicella stai viaggiando, in quali onde sei immerso, è importante riconoscere che ti appartengono, per sempre.

  Non stava più dondolandosi semplicemente sull’altalena. Era sospesa in aria e il beffardo rezzo gelido di metà novembre abbracciava il suo viso premendo sugli occhi come spilli. Sapeva che poteva cadere da un momento all’altro e che le sue minuscole dita, così attanagliate alle corde, iniziavano a sbriciolarle in tanti fili di canapa.
  Le mezzelune dei pollici, rosse quanto le adiacenti cuticole rosicchiate negli ultimi giorni, stavano scomparendo sotto la stretta presa delle mani. Ma più temeva di cadere e più si teneva salda. Percepiva l’aria che le scarmigliava i lunghi capelli ed era scossa da un fremito che gli gelava il sangue. Sentiva le vene che si contraevano per le fitte del panico che ripetutamente accelerava sui polsi mentre il cuore, dopo ogni nuova spinta, gli arrivava in gola.
  Per un attimo ha riaperto gli occhi alzandoli in alto, si è assicurata che i nodi delle corde erano ancora stretti attorno al ramo e si è sentita legata più al cielo che alla terra. Così sospesa nel vuoto non ha però capito se sognava, se erano solo ricordi o se quella caligine che affogava negli occhi era vera e stava divorando i suoi pensieri o se era un nuovo incubo più feroce del precedente.
  Non poteva permettersi una nuova ricaduta, il dottore era stato chiaro “devi tenerti salda ed essere nel qui ed ora, sempre”. L’angoscia è cresciuta appena ha realizzato che le corde, invece, si perdevano nel nulla e lei dondolava appesa solo alle sue paure. Il terrore ha scomposto il suo ritmo appena si è accorta che quel movimento continuo non gli restituiva più l’orizzonte. Allora ha guardato in basso e da quel momento ha iniziato a vedere solo croci bianche spuntare improvvise dalla terra, fino a divenire una triste distesa di tombe di un cimitero infinito. 
  Lentamente davanti ai suoi occhi si è aperta una voragine che ha iniziato ad inghiottire le lapidi. L’albero che prima aveva vicino era svanito, il cielo volatilizzato e sotto ai piedi si allungava ferina l’ombra di chi la stava spingendo per portarla via con sé.
  La vertigine degli eventi gli ha rattrappito gli arti. Ha sbarrato la bocca serrando i denti e ha inghiottito la lingua per non doversi lamentare. Per ultime ha socchiuso le cosce opime per non subire una violenza che immaginava arrivare fin dentro di lei, nell’intimità dei piccoli anni. Poi improvvisa una luce intensa, antica, è piombata fulminea, ha illuminato le soavi membra che ai suoi occhi sono apparse per quello che erano realmente, bitorzolute e rattrappite, quella di una vecchia. I capelli incanutiti in fretta sono diventati rampicanti e si sono avviluppati in lunghissimi trefoli intrecciati come funi, le stesse che prima stringeva tra le mani nodose. Così appesa e tirata su per i capelli ha iniziato a piangere per il dolore. Nulla poteva contro quella forza oscura che la tirava, portandola al di là delle sue ultime energie, verso il definitivo territorio dell’annullamento. Attimi di angosce.
  Tra le nuvole si è sentita assorbita in un intenso lucore. Intorno ha riconosciuto il vorticare di esseri di energia, creature smaniose di accompagnarla fino in fondo, verso il principio di nuova perenne evoluzione. E proprio nell’istante dell’estremo trapasso, lento, un improvviso singulto l’ha tirata fuori. Una forza opposta l’ha fatta rientrare in sé.
Di colpo si è ritrovata aggrappata alle robuste corde di un’altalena che pencola sotto un antico ramo, quello della secolare quercia della casa paterna. I ricordi l’hanno riportata indietro. Riconosce le finestre, le tendine socchiuse, i fiocchi, l’avvolgente calore domestico, le carezze dei propri familiari. Ora ama quel luogo che profuma di tenera vita, ricorda che lei figlia, ha dei figli, cinque nipotini, e che quelli sono i conclusivi pensieri che ha sentito per l’ultima volta. Rivede gli istanti in cui il marito l’ha abbracciata e fatta sua delicatamente, rammenta i primi vagiti di Trinest, la sua secondogenita, le prime parole pronunciate e la susseguente laurea. E nello stesso istante, improvviso, incombe il dolore, la morte del coniuge. La figlia da crescere da sola, i lustri che passano inesorabili fino al matrimonio con il secondo compagno, e gli altri due figli. E poi ancora la nuova disgrazia e il dolore immenso per la perdita dell’ultimo nato, per un malore fulminante, finché un nuovo lungo dondolio la riporta lontana, in un luogo senza più tombe. Senza più rimandi.
  Sospesa nel vuoto assapora l’aspra umidità della notte, calma ulteriori ricordi che riaffiorano come antiche ferite che finiscono per stroncarla. Ora la compieta è davvero suonata. Sente la pelle lacerarsi sparpagliandosi in ogni piccolo spazio intorno a sé. Sente i suoi respiri affannarsi nel cercare di tessere quei brandelli dispersi e farne un nuovo corpo di fresche e rigeneranti intenzioni. E mentre approda verso la fine, un secondo scossone la riporta via da lì verso l’infinito peregrinare tra le langhe oscure dell’immensa solitudine e dell’oblio.
  L’ombra distruttiva l’avvolge in una luttuosa veste nera. Una cornacchia gli si posa sul braccio destro e inizia a beccarla a sangue lacerandone i tessuti, sull’altro s’adagia una candida tortora che la solleva delicatamente per portarla via con sé.
Così trafitta e in croce non osa chiamare a sé l’oscura signora e pregarla di accelerare quei pochi attimi indulgenti che significano morte. Sa che aspettarla le dà un coraggio che pone sollievo e beatitudine agli ultimi istanti terreni della sua antica anima intrisa di infiniti risvegli interiori. Rivede il cimitero sotto di sé e di questo labirinto afferra il senso e il messaggio evocativo. Le eterne onde del destino volgono al termine e niente e nessuno cullerà più i suoi sogni e ricordi. 
  Il suo essere alle ventitré, ormai, non esprime più un dondolio, è stasi, rigidità, pace, nullità. “Erigone è stata strangolata”. Un canto la ricompone.


«Luce luce lontana, più bassa delle stelle,
quale sarà la mano che ti accende e ti spegne?
Ho visto Nina volare tra le corde dell’altalena, un
giorno la prenderò come fa il vento alla schiena».


  Le corde si fermano improvvise e quando la luce si accende, le sue immortali immagini non ci sono più. Solo le sue emozioni sono lì, intatte nel tempo, per essere rivissute solo dai propri figli e nipoti.
  Un triste clic spegne quest’intima testimonianza di vita registrata sul pianeta Terra in loro possesso. Sul megaschermo bi-oled LogDiØ3, il potente cronovisore di ultima generazione, compare una data che sa di inverosimile: 29 febbraio 2076. La donna che esce in lacrime dalla Recollection Room della stazione spaziale orbitante “Nantucket” non può che essere grata al capitano Faber Mobachaby per averle fatto rivivere l’esperienza degli ultimi istanti di sua nonna Nedeva, una leaplings di 82 anni esatti, proprio oggi.

In copertina e sul dorso: elaborazioni del disegno La Colombe bleue 
di Pablo Picasso (1961) e della litografia Grasshopper 
di Maurits Cornelis Escher (1935).
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Racconto inserito nel mio prossimo libro 
ZUZZUVIU - Racconti apodittici

Proprietà letteraria riservata
© Franco Chirico, 2018

Copyright © INGEGNI Edizioni
COLLANA  La Ninninedda 
Prima edizione: 2018

Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni riproduzione, anche parziale, non autorizzata.


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Fabrizio de Andrè - Ho visto Nina volare

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