domenica 25 luglio 2010

RIDERE MALINcomico




Rido della mia malinconia
perché non sto bene da solo
ma con me stesso.



Lucente Lucifero
l’unico lunatico
di lustri illustri.
Abbagli al buio

e lurido ridi.
Principe per principio
risolvi e solvi

e del tuo male ammali...

ma è nel tuo ardore che ardi.



Rido per stare bene,
ma se non rido sto meglio.
Allora sarò triste per stare bene
ma non sta bene, perciò riderò!

Riderò e mi sta bene
non riderò ed è meglio.
Sarò triste, ma non sto bene
ebbene, starò meglio!

Ride ben chi ride meglio
perciò meglio riderò.
Non sarò più triste ... perciò
riderò, riderò, riderò!


Il buio della stanza è lontano
i giochi riposti
le pedine ormai sole.

Il Sole è vicino, caldo abbastanza
gli occhi aperti, lo spirito giusto,
l’animo disposto.

Uno sforzo sovrumano;
ora ascolto, ascolto, so sentire
vedere, capire... è come rinascere.

Ora la mia vita vale la pena
una pena... da riderne.



giovedì 8 luglio 2010

Salone della Parola



Scopro questo Salone della Parola e ve lo segnalo attraverso le parole del Curatore del Festival Marcello Di Bella.




SALONE DELLA PAROLA
Festival della Filologia


Pesaro, 8,9,10,11 luglio 2010


“La filologia (dal greco φιλολογία [filologhìa], composto da φίλος [filos]"amante, amico" e λόγος [logos] "parola, discorso": "amore per lo studio delle parole"), secondo l'accezione comune attuale, è un insieme di discipline che studia i testi letterari al fine della ricostruzione della loro forma originaria attraverso l'analisi critica e comparativa delle fonti che li testimoniano, e con lo scopo di pervenire, mediante varie metodologie di indagine, ad una interpretazione che sia la più corretta possibile. In questo caso si tratta della cosiddetta critica del testo. Tuttavia il termine è attualmente utilizzato per indicare indagini anche relative ad altri ambiti, ad esempio alla musica e all'arte”.

Così si legge in Wikipedia, forse non la più attendibile, ma certo la più grande enciclopedia attualmente esistente al mondo, grazie a quella rete che ha scatenato una produzione lessicografica di proporzioni immani. Tuttavia, come è stato detto per la filosofia, cioè che chiunque, magari inconsapevolmente, si pone domande di tipo o gusto filosofico, così anche per la filologia, disciplina che si rappresenta come esercizio riservato a una élite ormai sparuta e un poco polverosa, può valere un analogo discorso: si può osservare che, tra l'altro sempre più di frequente, accade diffusamente di chiedersi, a proposito di un qualsivoglia testo, scritto o orale, da chi e che cosa sia stato scritto o detto veramente, che significato abbia, cioè come debba essere interpretato, che valore attribuirgli se è di tipo artistico, che rapporto abbia con il tempo e il luogo della sua produzione, cioè con il suo committente, etc.

Si tratta di domande di tipo filologico, che in prospettiva estendono la concezione di quella disciplina che nasce emblematicamente in una biblioteca, in quella di Alessandria, la più grande che il mondo antico abbia conosciuto, allorché si trattò di stabilire e mettere su carta (papiro) le diverse tradizioni di testi a cominciare da quelli riferiti a Omero.
Sicché oggi la costellazione delle arti e delle scienze riferibili alla filologia può essere senza particolari forzature alquanto estesa e abbracciare l'ermeneutica, la semiologia, la linguistica, la comunicazione, l'estetica, la storia senza contare l'enorme sostrato di ordine politico, culturale e ideologico che chiama in causa l'insieme delle scienze sociali compreso il diritto. Questa premessa è forse doverosa nel momento in cui si presenta al vasto pubblico una iniziativa che si occupa del linguaggio, o più propriamente della parola: un “salone”, un salon come quelle esposizioni parigine commentate da Baudelaire, o semplicemente, o più volgarmente, una fiera o un festival: non solo nel senso di un luogo in cui qualcosa si manifesta, ma anche spazio di incontro e scambio tra quanti pensano che non sia del tutto tramontata l'era della parola in favore dell'immagine e che quest'ultima non possa essere afferrata o percepita senza pensiero/parola.

La cosa viene da Pesaro, dalla sua biblioteca storica, l'Oliveriana, che è anche museo, anche archivio, la grande memoria della città e del suo territorio ma anche una importante finestra sul mondo che vanta, tra le altre, notevoli tradizioni filologiche per l'opera di studiosi di rilievo internazionale e per tutti di Scevola Mariotti che ne promosse la rinascita nel Secondo Dopoguerra.

Si diceva del vasto pubblico, di docenti, studenti e non solo: di cittadini che amano approfondire fuori dai circuiti dell'ovvio, magari cimentandosi con qualcosa che può sembrare difficile. Si può citare in proposito Marc Augé, il grande antropologo della contemporaneità, e un grande amico dell'Italia che dice, in una recente intervista dell'aprile 2010 sul tema della così detta cultura mainstream (il presunto pensiero unico globalizzato): “Tra la cultura alta e cultura di massa c'è sempre uno scambio sotterraneo, e molto spesso la seconda si nutre della ricchezza della prima […] l'Europa, che ha sempre seguito l'universalismo di fronte alla globalizzazione – che è somma di dati più che sintesi di valori – reagisce con esitazione, favorendo ripiegamenti localistici e identitari che certo non favoriscono l'emergenza di prodotti culturali capaci di diffondersi nel mondo”.

E non si può non citare un'altra intervista recentissima, rilasciata dal pesarese Ivano Dionigi, ora Rettore dell'Alma Mater e già consigliere dell'Oliveriana, che sarà ospite del festival: “Perchè oggi c'è una barbarie della parola […] parlare bene, come diceva Platone, oltre a essere una cosa bella in sé, fa bene all'anima”. Si tratta di considerazioni ben presenti a quanti si occupano di formazione delle giovani generazioni, a quanti pensano che la cultura, anche nelle forme più forti, incisive o elevate, costituisca per tutti una dimensione vitale. In proposito vale la pena di riportare un discorso tenuto da Josif Brodskij (premio Nobel 1987 per la letteratura) alla festa di laurea dell’Università di Ann Arbor del 1988: “Le cose che state per ascoltare prendetele semplicemente come soffiate. La prima “soffiata”. Adesso e nel tempo a venire, credo che per voi sarà un buon affare puntare alla precisione del linguaggio. Cercate di costruirvi un vocabolario e di trattarlo come trattereste il vostro conto corrente. Seguitelo con ogni cura e cercate di migliorarne i profili. Qui non si tratta di migliorare la vostra eloquenza amatoria o il vostro successo professionale, né di trasformarsi in raffinati conversatori da salotto. Lo scopo è un altro: mettervi in grado di esprimere voi stessi con la massima ampiezza e precisione. Perché l’accumularsi di cose non dette non espresse a dovere, può tradursi in nevrosi…L’espressione resta dietro all’esperienza e questo ora fa bene alla psiche…”
(dal “Corriere della sera” del 14/1/1989).

Precisione, profondità, concentrazione: caratteri dell’attenzione che si deve a ciò che ci piace pensare come fondamentale, a quesi testi che reclamano una comprensione critica, una filologia: “per una tale arte – scriveva Nietzsche nel 1886 – non è tanto facile sbrigare qualsiasi cosa perché essa ci insegna a leggere bene, cioè a leggere lentamente in profondità guardandosi avanti e dietro”. Viviamo in un tempo ossessionato dal nuovo e di guerra a oltranza alla durata, a ciò che magari ha superato la prova del tempo, a ciò che chiamiamo “classico”. Il quesito che timidamente poniamo è allora se non si possa ancora saper vedere Omero in Beautiful e magari Amleto nel Dr. House. Per vedere meglio, per vedere di più.

Il curatore
Marcello Di Bella

domenica 4 luglio 2010

AVA COME CLAVA



Schicchercartio.




________
Schic-cher-car-tì-o (Ropalica sillabica decrescente 5+4+3+2+1).



Come disegnatore o imbratta tele oppure come scarabocchia fogli non devo sembrare un granché (altro che diarrea letteraria come vien suggerito nell’analisi etimologica del termine schiccherare -> Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana di Ottorino Pianigiani
).
Perché quivi [minchia che sintesi in un lemma, oltre modo antico, per dire: qui, nel luogo nel quale si confabula] il mio schicchercartio, vale sia come un semplice graffio su una tela - avete presente i cinque tagli di sopra alla Fontana?! Cinque, quante le sillabe del mio neologismo - e sia come una semplice parola scritta su un foglio, ma nessuna delle due può valermi, né ora e né in futuro, una fortuna, perché un neologismo di siffatta natura non serve a niente e a nessuno! 

Non è come Aspirina® o CocaCola® che valgono ai rispettivi detentori dei diritti un patrimonio. Schicchercartio è solo una piccola goccia emersa dall’immenso linguaggio universale, che a mala pena servirà solo a bagnare (come una lacrima dopo uno immenso sforzo sfinterico) una piccolissima parte di questo stralunato blog.

Eppure per esaltarmi un po’ vi dirò che i vecchi idiomi [ragionate con me su: id-io-mi = Id-Ego e Super Ego (suddivisione dell’apparato psichico di Freud
) = vale a dire Io: Uno e Trino perché in principio era il Verbo... e il verbo era D’io - tutto torna] sono nati, secondo Gennaro D’Amato, da L’Alfabeto sacro di Adamo, AUM (1987, Fratelli Melita Editore). Non è che mi voglio montare la testa dopo questa premessa - creata ad arte - ma il mio piccolissimo Verbo, o meglio, la mia nuova parola, non può che essere sacra. 
La sentite la musica che sprigiona: schic-cher-car-ti-o; la riuscite a vedere la scala che ne scaturisce: schic-cher-car-ti-o. È un sacro idioma = > vale a dire sacro id-iota (ma quanto Vino ho bevuto questa sera?!).




Sarà l’effetto di-Vino, ma riosservando la copertina del libro vedo la stessa matrice gra-fica “V” (V come cinque romano, V come neologismo pentasillabico) trovata dal D’Amato dappertutto (matrice certa <--> patrice incerto). Vedo rune e lettere dell’alfabeto che nascono - come Venere dalle acque - dalla stessa grafia, vedo il sacro simbolo femminile (V tagliata in due parti uguali - osservate bene la copertina del libro - che cosa apre Dio con le mani? Una V, la V di venere, di Verbo) e rivedo sopra il mio falso Fontana, che ricalca la lettera dell'alfabeto greco
ψ (psi) e la runa R (r) e vedo che è il Verbo, la parola, la Vera generatrice (matrice), la vera rivoluzione nel mondo.


Leggendo “schicchercartio” i puri di lingua, cioè i linguisti puristi potranno pure in-orridire [OrRidetti vi suggerisce qualcosa? Vi do un aiutino palindromo: è il mio avatar tumblero: EVOL ut ION <-> NOI, tu LOVE; che poi inserendo una R davanti diventa REVOLUTION = rivoluzione/evoluzione], ma vuoi mettere la mia soddisfazione per aver coniato il primo termine ropalico decrescente che va asce mare (vale a dire che verrà accettato e scomparirà in fondo all’oceano delle parole morte)!?

Forse
schicchercartionel panorama linguistico italiano è l’unico termine che possiede la suddivisione sillabica ropalica decrescente e, fino a prova contraria, è il solo termine coniato o identificato di questo tipo, ma se non lo dovesse essere, brindo lo stesso.

Brindo a tutti voi e a tutti i detrattori del Verbo. Anzi a quest’ultimi dedico due miei versi ropalici classici:

chi deve campari diventerà imperituro

chi beve campari degusterà aperitivo




ropàlico agg. e s. m. [dal lat. rhopalĭcus, gr. ῥοπαλικός, der. di ῥόπαλον «clava»] (pl. m. -ci). – Verso r. o assol., come s. m., ropalico, verso classico in cui le parole procedono crescendo successivamente di una sillaba, come nella clava (ῥόπαλον) crescono progressivamente le dimensioni dall’impugnatura alla testa: se ne trovano nei componimenti poetici di Porfirio (4° sec. d. C.), ma erano giochi metrici già in uso presso i poeti neoterici del 2° sec. d. C. e prima presso i Greci nell’età ellenistica coi carmi figurati di Dosiada e dei suoi imitatori. Un esempio ne è il verso (citato da Servio) Rem tibi concessi, doctissime, dulcisonoram.