martedì 1 novembre 2011

NOMON - Neologismo (1)

NONOM = Neologismo (termine specifico da utilizzare al posto di sagoma).


NOMON = s. m. [dal greco Nomos (pl. nomòi): 1. consuetudine, norma, 2. nomo, nomisma, nomarca, da qui nomade (chi cambia dimora)]; propr. perimetro, circuito, contorno tracciato sul pavimento per delimitare e rappresentare l’ultima posizione assunta dal corpo di un individuo prima di morire. Per estens. nomon del cadavere, nomon sull'asfalto dell’uomo investito, il poliziotto tracciò il nomon della vittima con un nastro adesivo bianco. Nomon è un termine palindromo, bifronte, circolare, chiuso ad anello come lo è il contorno di una sagoma. Viene utilizzato per esprimere non solo il contorno di un tracciato chiuso intorno ad un cadavere ma anche ad un oggetto (es. impronta circolare di caffè lasciato dalla tazzina sul tavolo, il segno di una penna intorno alle dita di una mano, etc. ). L’origine del termine sembra nascere anche dalla crasi di due termini: No-OMO, No-Man, No-humanus; espres. universale con valore privativo che vale come “non-più-uomo” (individuo non più vivo). Cit. Segno nomonico dall’inconfondibile lineamento femminile.

Quando il nuovo lemma nomon si è impossessato dei miei pensieri una gioia immensa ha attraversato il mio essere. Ho esultato appena ne ho intuito la potenza, l’afflato (sic!). Un tremore ha scosso il mio corpo pervaso dalla calda forza che emanava il neologismo dato alla luce.

Davanti ai miei occhi ho intravisto il cambiamento che un solo termine può riuscire a provocare quando modifica abitudini e linguaggio in una comunità; quando una nuova parola scombussola la vulgata forense e fa prendere una nuova piega alle definizioni scientifiche; quando una vecchia parola come “sagoma” cade in disuso e non riesce più a connotare, nello specifico, il contorno tracciato intorno ad un cadavere o a un oggetto steso a terra.

Un lento declino, inesorabile, ha messo in pensione il vecchio termine e un trionfo ha spalancato le porte ai barbagli del possente friccicore del nuovo (sic!). Assaporando la gioia di essere parte attiva degli ultimi indefessi e salubri inseminatori di parole, ne ho assaporato a lungo la paternità e una certa contezza mi ha trasformato in un piccolo ma necessario creatore (sic!). 

Ho percepito chiara e forte la sua potenza in fieri mentre si faceva verbo, l’apoteosi nel divenire un nomen (omen), una cosa che prende corpo e diviene sostanza trasformandosi in sostantivo, che definisce, determina una propria entità, una sua essenza, un nome, ... che diviene lessema ... verbum... logos.

Nello stesso momento lo sconforto si è impossessato di me, ho visto chiaro e tondo la sua vis viva, la magia, il suo trasformarsi in parola e, nel tempo, parola abusata, inclusa nelle pagine dei vocabolari, imprigionata con altri lemmi, suoi tanti derivati (diminutivi, vezzeggiativi, spregiativi, accrescitivi, peggiorativi, aggettivi, avverbi, etc. ), per poi scomparire, perdendo corpo e consenso, nel futuro a sé prossimo, nei meandri delle parole disusate, morte.

L’apatia ha avvolto, come un’aura nomonica, il mio essere e una distonia ha intorpidito il mio corpo piombando nella più confortante malinconia. Con il tempo, non lo stesso che mi ha portato fin qui a scriverne, perché è un tempo postumo (difatti mi sento morto quanto la sagoma), nel conforto del ristagno dell’atrabile, ho rivissuto alcuni dei miei istanti infantili quando sui banchi di scuola, realizzavo per la prima volta, che abbiamo la pessima abitudine di definire con l’aggettivo “rotto/a” la nuova sventurata realtà di un oggetto non più integro (l’orologio è rotto, il braccio è rotto, etc.). 

E scoprire, successivamente, che noi umani abbiamo un nome per tutto: occhiali, ombrello, ramo, capelli, computer, vangelo, dio, casa, vetro, ... ma non abbiamo un termine per definire un ombrello rotto, una casa crollata, un auto distrutta, aggiungiamo, per esprimere e comprendere il nuovo stato delle cose ormai inutili, solo rotto, spezzato, distrutto; eppure, per un essere vivente, diciamo: “cadavere”, “salma”, “spoglie”, “carcassa”, “carogna”, non diciamo uomo rotto, cane rotto; certo usiamo forme come vita spezzata, vita interrotta, stroncata ma sono solo eufemismi per quando non abbiamo il coraggio di dire “morto”.

Insomma, per dirla con le parole di chi l’ha vissuto da bambino, non ci premuriamo di definire ombrello rotto con un nuovo termine, tipo: strìpiolo; una casa crollata con: prubia, gnavelle, scrate, ... o semplicemente ridefinendo il lemma con il suo esatto contrario asac, ollerbmo, ortev, ... Lasciamo tutto com’è, nicchiamo, non ci curiamo del loro stato, per noi nessuna di quelle cose ha più la dignità di esistere, di essere. L’ineluttabilità, la morte, attiva l’inesorabilità alle cose, alla vita degli oggetti, ancora prima di aver inventato e ridato a loro un nuovo nome, una nuova ultima vitalità.

Eppure, l’invenzione di un nuovo lemma avrebbe solo una intima eco di disperazione, questo è lo sconforto che emana la nuovissima parola appena coniata: morte. Perché le parole che utilizziamo sono già vecchie, putride, decrepite... proprio perché espresse. Heidegerr asseriva “L’uomo, appena nato, è già abbastanza vecchio per morire” figurarsi la parola.  

Ogni parola che pronunciamo, appena detta, è appassita insieme ai nostri pensieri, non potrà mai sprigionare il suo senso primigenio, la freschezza del suo significare finché era nella mente, finché era parte dell’archetipo o di un’archiscrittura. Eppure, la prima volta che l’ho scritta, ho pensato solo: l’ho appena pronunciata e ha già perso il candore della prima volta, la freschezza del suo esordire nel presente, nel contingente e già olezza di marcio, di stantio, di putrido.

Ogni parola che scriviamo non contiene mai l’oggetto dei nostri sentimenti, del nostro sentire, del nostro essere, è solo una mera descrizione. Il mondo non esiste nelle parole. La lingua o il linguaggio è un luogo di lessemi morti, le parole sono le tombe dei nostri pensieri, le lapidi delle nostre idee, tessere giganti di un domino che non avrà mai fine. Ma, al contempo, le parole sono la cura, il rimedio, il palliativo che ci illude di operare su un corpus che è e resta malato. 

Crediamo che la parola ci renda vivi, ma con esse ci illudiamo di vivere; sprigiona solo un’energia vitale che ci lega l’un l’altro ad un presente che è solo la porta della speranza di fuga del passato. La parola non ci concede un futuro, ma solo un contingente pieno di rivendicazioni e confronti. È terribile dirlo (Dickinson sbagliava) “la parola è morta”.

Ogni nuova parola non è l’illuminazione di una nuova visione, ma del buio che permea le altre; è solo l’eco della luce che contiene il logos del lucore che l’ha generata. Ci illudiamo di costituire e sostituire i nostri nuovi pensieri e con essi crediamo di cambiare il mondo in saecola et seculorum, ma con le nuove parole distruggiamo solo le precedenti scoperte altrui, camuffandole in sconfitte, bruciamo solo vecchie conquiste, così come il (mio) nomon cerca di fare con sagoma

Quindi, la mia eccitazione per questa nuova parola, è solo un’orrida emozione vecchia come l’uomo, vecchia come il mondo, è la malattia della nostra esistenza: perdersi in bricciche. Perciò, avrò pure inventato un nuovo lemma, ma sarò solo un ignobile Lucifero che cerca di accendere il faro a quel miserrimo divenire parola, uno strenuo difensore del cammino del linguaggio degli uomini. 

Un oceano di silenzi accenderà il suo apparire nel mondo e affogherà la mia ipocrita speranza di creatore di lemmi, probabilmente tra gli altrui affettuosi sentimenti e le ipocrite approvazioni, tra le sfrenate rimostranze e le spietate critiche, tra gli sghignazzi e gli insulti, ... ma io posso solo dire a mia discolpa, se serva poi a qualcosa o a qualcuno: “ho cercato parole che non sono riuscito a dire, ho scritto parole che non ho saputo pensare, ho inventato lemmi che non potevo creare”.

Sit venia verbo.

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