lunedì 20 agosto 2018

Tutta colpa di “Erre” - Gianni Rodari, 1972

C’è, chi dà la colpa
alle piene di primavera,
al peso di un grassone
che viaggiava in autocorriera:

io non mi meraviglio
che il ponte sia crollato,
perché l’avevano fatto
di cemento “amato”.

Invece doveva essere
“armato”, s’intende,
ma la erre c’è sempre
qualcuno che se la prende.

Il cemento senza erre
(oppure con l’erre moscia)
fa il pilone deboluccio
e l’arcata troppo floscia.

In conclusione, il ponte
è colato a picco,
e il ladro di “erre”
è diventato ricco:

passeggia per la città,
va al mare d’estate,
e in tasca gli tintinnano
le “erre” rubate.


sabato 19 maggio 2018

domenica 6 maggio 2018

Postfazione del libro “Racconti apodittici” - INGEGNI Edizioni


Del diletto del dialetto



  Se attaccassi con il dire che “Una lingua è un dialetto con un esercito ed una marina” direi na bella fregnaccia, ma se nello stesso tempo mi avventurassi a ribadire che il dialetto non assolda militanti direi un’altra castroneria. Vi basti sapere che, per come la vedo io, una singola unità gergale, o un singolo lemma paesano, è un lesto fante, l’insieme degli idiomi salentini una gran coorte, mentre, l’inconfondibile pugliese, un’intera legione insediata nei castra che accampa diritti sulla terra - una terra natia di genius loci -, una compagine pronta a difendere il proprio territorio: “terribilis est logos iste”, vale a dire la “parola”, «un pitale pieno di gioielli» e, la sua pronunciata e complessa smaterializzazione, il libro: la trascrizione e la morte del verbo, un diamante di carta.

  Se vi dicessi anche che il dialetto è per me chiricus vagans un territorio sacro senza confini, una cattedrale incompiuta, una dimora domestica affollata di famuli e familiari, un non-finito carico di materia da cavare in continuo, un morfema amorfo che ancora evolve e che nello stesso istante resta schiavo dentro un preciso significato che diventa significante nel momento in cui diviene altro da sé, una matassa, un garbuglio, un ricco incarto di millanta lemmi e dilemmi, una trama di riferimenti, un mosaico di sentimenti, di simbionti, di gente che si lega, si relaziona e vive gli stessi sapori, umori e rumor(i) degli stessi territori, non direi certo una genia-lata. Oppure sì, una genialata di suoni icastici ed ironici, un marasma che pressappoco vale l’intero patrimonio umano, il Logos, l’AUM che al suo interno nasconde il pleroma, le Metamorfosi che dal genoma aploide, muta nella forma polisemica apolide del me apulo che morfica in una apuleiana magia. La magia di una natura imperturbabile che lavora con lentezza, che cambia di continuo e si riposa, che si apre al nuovo e si placa, che cresce e si riplasma, che guarda al futuro e ritorna all’antico, che corre e si corregge, l’eterno simbolo della tranquillitate meridionale. 
   Un’atarassia, un mondo sapiente pregno di murge e ricchiteddi, di dolmen e mieru, di Ionio e gnimmarieddi, di Barocco e fichi cucchiati, di castelli e pettuli, di ulivi e pappamusci, di suppenne e pucce, di trulli e frise, di masserie e pizzica pizzica, di rapper e panzerotti ..., insomma una ricca armonia e solarità mediterranea, un inturcinamento territoriale tra moderno e tradizione in una mescidanza a me patria, che in una sola parola è “uno «gliummero»” un groviglio di concause caro non solo a don Ciccio Ingravallo. 

  Una aretè locale intrisa di una parlata molto pronunciata, di idiomi di creature e di cose, un poliedrico rebus che è molto complicato leggere e soprattutto scrivere, ma che è un puro diletto parecchio difficile da ridisegnare, o meglio, da res-pingere, perché è l’istantanea di un disegno divino, un flusso immaginario astruso, un parlottio da dormiveglia, una veglia, una polisemia che si contrappone al caos, alla cosa che, guarda caso, con un altro salto, è molto affine a un ibridismo o forestierismo inesauribile, quasi un cosmo ri-creativo, un fiume in pena, pieno di flussi saltellanti con un incedere misterioso e confluente in un incongruente zeugma, un Finnegamesenjoyce!
   Zuzzuviate gente, zuzzuviate.



In copertina e sul dorso: elaborazioni del disegno La Colombe bleue 
di Pablo Picasso (1961) e della litografia Grasshopper 
di Maurits Cornelis Escher (1935).
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Postfazione
inserita nel libro 
ZUZZUVIU - Racconti apodittici


Proprietà letteraria riservata
© Franco Chirico, 2018

Copyright © INGEGNI Edizioni
COLLANA  La Ninninedda 
Prima edizione: 2018

Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni riproduzione, anche parziale, non autorizzata.


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sabato 7 aprile 2018

Recollection Room




Gli ultimi istanti dell’esistenza non è possibile condividerli con nessuno, eppure sono lì, in eterno, tra le pieghe dell’universo, carichi di paure e di gioie. Risplendono nell’infinito oceano delle emozioni e dei ricordi, e ognuno di essi resta inabissato nel buio più profondo, nel silenzio del tempo. Solo quando sei sicuro di farli venire a galla, riemergono improvvisi come un’enorme balena bianca. Devi essere abile ad arpionarli al volo per riviverli, specialmente se non sono i tuoi. Non ha importanza su quale navicella stai viaggiando, in quali onde sei immerso, è importante riconoscere che ti appartengono, per sempre.

  Non stava più dondolandosi semplicemente sull’altalena. Era sospesa in aria e il beffardo rezzo gelido di metà novembre abbracciava il suo viso premendo sugli occhi come spilli. Sapeva che poteva cadere da un momento all’altro e che le sue minuscole dita, così attanagliate alle corde, iniziavano a sbriciolarle in tanti fili di canapa.
  Le mezzelune dei pollici, rosse quanto le adiacenti cuticole rosicchiate negli ultimi giorni, stavano scomparendo sotto la stretta presa delle mani. Ma più temeva di cadere e più si teneva salda. Percepiva l’aria che le scarmigliava i lunghi capelli ed era scossa da un fremito che gli gelava il sangue. Sentiva le vene che si contraevano per le fitte del panico che ripetutamente accelerava sui polsi mentre il cuore, dopo ogni nuova spinta, gli arrivava in gola.
  Per un attimo ha riaperto gli occhi alzandoli in alto, si è assicurata che i nodi delle corde erano ancora stretti attorno al ramo e si è sentita legata più al cielo che alla terra. Così sospesa nel vuoto non ha però capito se sognava, se erano solo ricordi o se quella caligine che affogava negli occhi era vera e stava divorando i suoi pensieri o se era un nuovo incubo più feroce del precedente.
  Non poteva permettersi una nuova ricaduta, il dottore era stato chiaro “devi tenerti salda ed essere nel qui ed ora, sempre”. L’angoscia è cresciuta appena ha realizzato che le corde, invece, si perdevano nel nulla e lei dondolava appesa solo alle sue paure. Il terrore ha scomposto il suo ritmo appena si è accorta che quel movimento continuo non gli restituiva più l’orizzonte. Allora ha guardato in basso e da quel momento ha iniziato a vedere solo croci bianche spuntare improvvise dalla terra, fino a divenire una triste distesa di tombe di un cimitero infinito. 
  Lentamente davanti ai suoi occhi si è aperta una voragine che ha iniziato ad inghiottire le lapidi. L’albero che prima aveva vicino era svanito, il cielo volatilizzato e sotto ai piedi si allungava ferina l’ombra di chi la stava spingendo per portarla via con sé.
  La vertigine degli eventi gli ha rattrappito gli arti. Ha sbarrato la bocca serrando i denti e ha inghiottito la lingua per non doversi lamentare. Per ultime ha socchiuso le cosce opime per non subire una violenza che immaginava arrivare fin dentro di lei, nell’intimità dei piccoli anni. Poi improvvisa una luce intensa, antica, è piombata fulminea, ha illuminato le soavi membra che ai suoi occhi sono apparse per quello che erano realmente, bitorzolute e rattrappite, quella di una vecchia. I capelli incanutiti in fretta sono diventati rampicanti e si sono avviluppati in lunghissimi trefoli intrecciati come funi, le stesse che prima stringeva tra le mani nodose. Così appesa e tirata su per i capelli ha iniziato a piangere per il dolore. Nulla poteva contro quella forza oscura che la tirava, portandola al di là delle sue ultime energie, verso il definitivo territorio dell’annullamento. Attimi di angosce.
  Tra le nuvole si è sentita assorbita in un intenso lucore. Intorno ha riconosciuto il vorticare di esseri di energia, creature smaniose di accompagnarla fino in fondo, verso il principio di nuova perenne evoluzione. E proprio nell’istante dell’estremo trapasso, lento, un improvviso singulto l’ha tirata fuori. Una forza opposta l’ha fatta rientrare in sé.
Di colpo si è ritrovata aggrappata alle robuste corde di un’altalena che pencola sotto un antico ramo, quello della secolare quercia della casa paterna. I ricordi l’hanno riportata indietro. Riconosce le finestre, le tendine socchiuse, i fiocchi, l’avvolgente calore domestico, le carezze dei propri familiari. Ora ama quel luogo che profuma di tenera vita, ricorda che lei figlia, ha dei figli, cinque nipotini, e che quelli sono i conclusivi pensieri che ha sentito per l’ultima volta. Rivede gli istanti in cui il marito l’ha abbracciata e fatta sua delicatamente, rammenta i primi vagiti di Trinest, la sua secondogenita, le prime parole pronunciate e la susseguente laurea. E nello stesso istante, improvviso, incombe il dolore, la morte del coniuge. La figlia da crescere da sola, i lustri che passano inesorabili fino al matrimonio con il secondo compagno, e gli altri due figli. E poi ancora la nuova disgrazia e il dolore immenso per la perdita dell’ultimo nato, per un malore fulminante, finché un nuovo lungo dondolio la riporta lontana, in un luogo senza più tombe. Senza più rimandi.
  Sospesa nel vuoto assapora l’aspra umidità della notte, calma ulteriori ricordi che riaffiorano come antiche ferite che finiscono per stroncarla. Ora la compieta è davvero suonata. Sente la pelle lacerarsi sparpagliandosi in ogni piccolo spazio intorno a sé. Sente i suoi respiri affannarsi nel cercare di tessere quei brandelli dispersi e farne un nuovo corpo di fresche e rigeneranti intenzioni. E mentre approda verso la fine, un secondo scossone la riporta via da lì verso l’infinito peregrinare tra le langhe oscure dell’immensa solitudine e dell’oblio.
  L’ombra distruttiva l’avvolge in una luttuosa veste nera. Una cornacchia gli si posa sul braccio destro e inizia a beccarla a sangue lacerandone i tessuti, sull’altro s’adagia una candida tortora che la solleva delicatamente per portarla via con sé.
Così trafitta e in croce non osa chiamare a sé l’oscura signora e pregarla di accelerare quei pochi attimi indulgenti che significano morte. Sa che aspettarla le dà un coraggio che pone sollievo e beatitudine agli ultimi istanti terreni della sua antica anima intrisa di infiniti risvegli interiori. Rivede il cimitero sotto di sé e di questo labirinto afferra il senso e il messaggio evocativo. Le eterne onde del destino volgono al termine e niente e nessuno cullerà più i suoi sogni e ricordi. 
  Il suo essere alle ventitré, ormai, non esprime più un dondolio, è stasi, rigidità, pace, nullità. “Erigone è stata strangolata”. Un canto la ricompone.


«Luce luce lontana, più bassa delle stelle,
quale sarà la mano che ti accende e ti spegne?
Ho visto Nina volare tra le corde dell’altalena, un
giorno la prenderò come fa il vento alla schiena».


  Le corde si fermano improvvise e quando la luce si accende, le sue immortali immagini non ci sono più. Solo le sue emozioni sono lì, intatte nel tempo, per essere rivissute solo dai propri figli e nipoti.
  Un triste clic spegne quest’intima testimonianza di vita registrata sul pianeta Terra in loro possesso. Sul megaschermo bi-oled LogDiØ3, il potente cronovisore di ultima generazione, compare una data che sa di inverosimile: 29 febbraio 2076. La donna che esce in lacrime dalla Recollection Room della stazione spaziale orbitante “Nantucket” non può che essere grata al capitano Faber Mobachaby per averle fatto rivivere l’esperienza degli ultimi istanti di sua nonna Nedeva, una leaplings di 82 anni esatti, proprio oggi.

In copertina e sul dorso: elaborazioni del disegno La Colombe bleue 
di Pablo Picasso (1961) e della litografia Grasshopper 
di Maurits Cornelis Escher (1935).
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Racconto inserito nel mio prossimo libro 
ZUZZUVIU - Racconti apodittici

Proprietà letteraria riservata
© Franco Chirico, 2018

Copyright © INGEGNI Edizioni
COLLANA  La Ninninedda 
Prima edizione: 2018

Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni riproduzione, anche parziale, non autorizzata.


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Fabrizio de Andrè - Ho visto Nina volare

domenica 4 marzo 2018

«l’Hybridamente - Piantala subito» (romanzo in divenire) by @INGEGNIedizioni

Copertina «lHybridamente» by @INGEGNIEdizioni



Subito sotto, uno stralcio dal mio prossimo romanzo l’Hybridamente ancora in stesura, 2° Capitolo, Seconda esperienza. Un flusso di coscienza di circa 300/400 pagine. 
Solo i punti e virgola interrompono la disperazione e la solitudine di una donna (una traduttrice di autori turchi) travolta nell’esplosione di una bomba terroristica a Parigi nel novembre 2016; una donna costretta, suo malgrado, a descrivere il proprio mondo interiore e il mondo degli altri, che poi non sono altro che i suoi diversi sé. Un mondo che ti crolla addosso. Un universo che esiste solo nella propria coscienza, nella coscienza di sé, che è solo uno dei miliardi di algoritmi che ci vengono proposti quotidianamente per dare un verso, o un senso, alla nostra esistenza, alla nostra consapevolezza reale e digitale: «Un io indistinguibile dove è inutile affannarsi per essere moralisti, timorati di Dio, benefattori, filosofi, matematici, scrittori, ladri, economisti, designer, artisti, criminali, santi, ... tanto questa Terra si scrolla e butta giù tutto, spazza via uomini e bestie, maghi e sacerdoti, ogni cosa ... mettendo ordine tra parassiti e vermi, tra virus e sudditi, tra ricchi e massoni, tra merde e politici, che poi sono sempre la stessa cosa. La Terra ci piscia addosso a tutti e ci affoga nel fango o nell’oceano, sotto una montagna di detriti, i nostri. Qui, dove io sono, non esiste la distinzione tra Natura e Cultura, tra Ignoranza e Sapienza, tra Morale ed Etica. Gaia è la nostra madre, mater dei, materia che ci uccide tutti, Gaia muore insieme a noi, Gaia è meravigliosa, Gaia è una stronza, Gaia scienza un cazzo, Gaia vaffanculo!». 

Buona lettura.



[...] ma fino a quando le idee non diventeranno materia nulla può succedere contro natura, nulla contro la verità che sfugge, che non si fa afferrare, contro la complessità della struttura delle cose, contro il caos della materia che si trasforma in continuo, divenendo somma di cause ed effetti, sintesi di piacere e dolore, di sofferenza e calamità tanto amate dagli dèi, dèi che amano restare in cielo, che mandano giù il loro cielo, un cielo di igitur, di dunque, di eppure, eppure il cielo esiste, il cielo resiste, persiste, tanto che è sceso sulla terra;

ora è materia caotica, miscuglio di ossa e sangue, di acqua e muscoli, di materia grigia e callosa, di minerali e calore, eppure sono «Uno», un’entità unica e irripetibile, una donna che pensa e argomenta, che si pone domande e prova a darsi delle risposte, che comprende che di fronte alla natura, un essere umano o un animale, una quercia o una rosa, un pilastro di cemento e ferro o una statua di marmo, o di bronzo, sono la stessa cosa, materia che muore e rinasce, che si sbriciola e si ricompone, che cambia stato ma non essenza, essenza che è sempre doppia, dove nulla è buono e niente è cattivo, nulla è giusto e niente e sbagliato, nulla è vita e niente è morte, tutto è nato e tutto deve morire, fino a divenire «Uno», ridivenire «Uno», vivere in «Uno», morire in «Uno», un «Uno» che ora è doppio, di un «Uno» che ha dovuto sdoppiarsi, dividersi, sbriciolarsi in una moltitudine di esseri, nascere e morire all’infinito, divenire moto e stasi, pace e guerra, religione e scienza, bene e male, corpo e anima, contraddizione e dubbio, domande e risposte, in un eterno fluire, in un eterno ritorno, dove la ragione non può venirne a capo, venire in «Uno»;

 ora è cielo, e la contraddizione è di questo mondo, noi essere umani crediamo nell’«Uno» ma seguiamo l’«Altro», crediamo in una cosa ma ne seguiamo un’altra, amiamo Dio ma seguiamo il demone, il demone che Ovidio ci ha tramandato “Vedo e approvo il meglio, ma seguo il peggio” «Video meliora, proboque, deteriora sequor», un labirinto di equilibri e squilibri, un labirinto di armonie e disarmonie, un eterno dilemma, un’eterna ghirlanda brillante, un groviglio di se e di ma, di sé e di mantra, di ora e di mai, di tutto quello che ancora non è stato fatto, di complicati contrappunti, di cose sempre uguali, di cose diverse di ora in ora, di ora io non so più cosa devo seguire se il peggio perché Dio non mi ha abbandonata o seguire il meglio perché Dio mi ha abbandonata;

ora è ancora cielo, cielo carico di dubbi, dubbi che sanno di vecchiaia, di esperienza, di passato, di antiche lotte, di antichi rituali e iniziazioni, di lontani predomini e potere, di guerre e conquiste, di razzie e distruzioni, di supremazie e troni, di lotte per la vita, di strategie per sopravvivere, per non morire, per trionfare, per odiare, per desiderare, per amare, dove anche le dolcezze sono tempeste, le carezze inganni, i baci tradimenti, le parole pietre, i pensieri armi imbattili, eppure si continua a temere, a voler cambiare lo stato delle cose, senza capire che i ghiacciai ridiverranno comunque acqua, l’acqua fiumi, i fiumi oceani, e gli oceani pioggia, e ancora arcobaleni, fulmini, saette, temporali, tempeste, uragani, distruzione e rinascita, totalità che ritorna «Uno», solido che ritorna gassoso, che ridiventa liquido, e poi ancora gassoso, solido, fluido, status quo, eterno «Altro», eterno ridivenire, eterna ghirlanda, eterna fatalità dell’universo, eterno destino del mondo, dell’Altro mondo, dell’essere umano che non riesce a comprendere che con lui o senza di lui le cose sono e diverranno ancora altro e poi se stesse, poi altro e di nuovo se stesse, cose che sono la stessa cosa, cose che non saranno mai la stessa cosa, lo stesso caos, caos e calma, caos calmo, e poi fuoco e acqua, terra e aria, cielo e cosmo, l’uno di fronte all’altro, l’«Uno di fronte all’«Uno»;

ora è cielo, Kosmos, cielo che si trasforma in sfera celeste, cielo da pianificare, cielo da controllare, cielo da etichettare, cielo pieno di etiche, di morali, di miti, cielo muto, cielo inquadrato, cielo diviso in costellazioni, in mappe stellari, in quadranti di astri, in asterismo, in isterismi collettivi, in figure mitologiche da tenere sott’occhio, di giganti e cigni, di orsi e serpenti, di granchi e carri, di croci e cinture, di chiome e pesci, di ammassi informi da sbrogliare, di galassie da armonizzare, di nebulose da dominare, da nominare, da rinominare, australe, boreale, austero, austrie, ostro per non rendere ostico il peregrinare, per orientarci, per occidentalizzarci, per recintare l’universo, per circoscrivere le stelle in triangoli, in quadrati, in quadranti, in quadri astrologici, in case, Prima casa, Seconda casa, in effemeridi, in congiunzioni positive, in influssi negativi, in pianeti contro, in Saturno contro, in Giove in Bilancia, in zodiaco, in nati sotto Saturno, sotto Venere, Venere in pelliccia, pelle d’Orsa Minor, perdiana, Diana della luce, di Artemide, di Luna crescente in oroscopi, in previsioni astrologiche, in preveggenza, per poi scoprire che è solo controllo degli eventi, solo previsione per prevenire sciagure, per scongiurare gli eccessi di tutti, per dominare domine e Dio, per bloccare gli Dèi, per recintare i loro moti, i loro passaggi, i loro influssi, un mare di influssi;

ora è mare, appunto, un mare che non puoi dominare, mare che non puoi sistemare, che non puoi fermare, non puoi contenere, non puoi calmare, mare che non ha strade da lastricare tant’è inafferrabile, mare che è vagabondo, imprevedibile, mare che è materia in movimento, è moto ondoso, è un onda che ti travolge, uomo in mare, «ma un uomo in mare che vita fa? non sa se andare di qua o di là. Scubidù, scubidù puoi capirmi solo tu», mare che ti spazza via e ti trascina giù, così come ha travolto me, uno tsunami dell’anima, un tumulto dell’anima mi ha trascinata giù, nessuna sirena è venuta in mio soccorso, perché ero sorda ai richiami, Nessuno mi ha legata a quell’albero maestro, a quel pilastro del cielo, albero che è venuto giù e mi ha spezzato la schiena;

ora è cielo, cielo che ribolle, cielo che sa di pulviscolo stellare, frammenti di meteoriti misti a plancton corpuscolare, luce che si propaga e irradia ogni spazio, ogni interstizio dell’universo, una luce che è brillata, forte, inondante, che ha travolto con un boato anche la mia casa, le mie cose, le mie ossa, la mia pelle, la mia testa, in un lampo è venuto giù l’universo, il mio mondo è crollato, un enorme sbuffo d’acqua di balena, di balena bianca accecante, ha espirato tutta la rabbia soffocata nel fondo, nel profondo, ha eruttato un’infinità di particelle digerite, corpuscoli insignificanti pronti a morire definitivamente, protocellule sminuzzate, kriller distruttivi, ferraglia devastante, bentos esplosivi, tutti stipati in un gigantesco spruzzo d’acqua che ha creato un’onda d’urto bestiale, travolgente, definitiva, facendomi saltare in aria dalla poltrona, sbattuta conto la libreria che già collassava verso di me, sbattuta contro una pila di libri che tremavano verso di me, che tramavano di arrestarsi contro di me con le loro costole spigolose, con i loro dorsi incisi a pieno titolo, titoli incisivi, titoli ferini, titoli che saltano agli occhi, che si sono conficcati in un occhio, sfondata la lente dell’occhiale, dell’occhio sinistro, quello astigmatico, quello ipermetrope, di quello che chiudo per fare l’occhiolino, che ha titolo da vendere, da vedere, titoli sparpagliati, un’orda di parole montate “un terremoto verbale con molti epicentri”, di un verbo che monta, di Montale e quale, una granata di lettere, di punti, di virgole, di numeri, briciole di carta, di costole, di filo refe sfibrato, di mille pagine squinternate, distrutte in mille pezzi, galleggianti nell’aria, vaganti, che si sono impastati con la polvere della mia casa, delle mie cose, della carta da parati, delle fibre delle tende, dei residui dei tappeti, di tegumenti di acari, di scaglie di pelle di sicari, di pelle tatuata, di gocce di sudore freddo, di granuli di polline, di frammenti di muffe, di funghi, di polvere di intonaco, di angherie, di alghe dell’acquario, di algoritmi sotterranei, di algide connessioni sottomarine, di sabbia, di briciole di stucchi, di calce, di schegge di vetri dei quadri, di olio di lino, di essenza di trementina, di lampadario che oscilla, che vacilla per una stanchezza appesa, di piume di uccello, di barbule, di penne d’ala remigante, della coda, tutte della mia cinciallegra, trafitta come me dal colpo di coda della megattera, da uno schiaffo infuocato che ha buttato giù la parete sinistra e spezzato il pilastro che reggeva il tetto del primo piano che ora è sopra di me, tramortiti entrambi da un lobtailing fuori sincrono con il nostro respiro, con il nostro comodo vivere, uccisi da uno schiaffone scucchiaiato così forte dall’ordigno esplosivo cucito addosso alla cintura piena di plancton di chiodi, di pallini d’acciaio, di viti, di bulloni che è deflagrata nel ristorante sotto casa, l’oceano di musica e bandiere è di colpo diventato silenzioso in questo triste cielo di novembre, cielo dominato dalle Pleiadi, cielo minato nel grande quadrato, un en-plein, un en plein air per il periplo, dalla doppia vu di Cassiopea, da una «W», una doppia cintura a vu che esplode a zig-zag, di bianche colombe, di falchi, di franchi tiratori, di albe dorate esplosive, di albe iniettate di sangue, di albe di ferocia, conseguenti, di Aldebaran nel Toro che carica, che insegue e sbuffa con gli occhi iniettati di sangue;

ora è cielo, un cielo che piange, un epicedio verrà scritto per la mia anima, qualcuno lo reciterà e io sarò pronta ad ascoltare, a sentirmi inutile, a non avere più progetti, idee sul futuro, sul mio futuro, a non poter scrivere sui fatti, sul da fare, sotto questa luna scheletrica, questa luna vigliacca, questa luna kamikaze che mi ha falciato, sono stata sommersa da un onda d’urto terroristica, da un’ondata di virulenza senza punti, senza punti d’appoggio, di scritte amare, di parole truci, di parole intraducibili, di parole tradotte, di tradotte di troppo, di truppe tradotte, tra dotti estranei ai fatti, di fatti traditi, di tradizioni turche, di tradizione tradita, di traduzione tradita, di non poter tradurre più libri di autori turchi, di non poter più sentire lo gemere dei torchi, di libri traditi, di libri a quattro mani, di libri ottomani, di luna e stella bianca, di notte bianca, di notte stellata, di stelle a strisce, di cattiva stella, di falce di luna, di Artemide, di luna trivia, di luna triviale, di viale del tramonto, del tramonto dell’essere, dell’essere in testa, dell’essenza dei testi, di editori, di dei e di tori, dei testicoli di toro come protuberanze rotonde, di nostra Signora di Efeso, di Nostra Signora dei Turchi, di Bene e di Male, di mezzelune ammainate.

Nostra Signora dei Turchi - Carmelo Bene (1968)



« ... geniale parodia della vita interiore", un Des Esseintes smontato e irriso. Nossignori. È ben altro. È il più bel saggio, in chiave di romanzo storico, su quel mio sud del Sud»

venerdì 23 febbraio 2018