lunedì 18 novembre 2024

 

Racconto di FRANCO CHIRICO ispirato dall’opera pittorica di © Francesco D’Isa, 2022

Red dragon over the sea by Hokusai by James Jean”.



Youniverse

Il famelico Meringhio



L’estenuante ritmo dei flutti marini avanza nei suoi occhi e lo incanta. È ammaliato dai ridondanti sussulti  dei marosi color crisocolla. Su quelle sovrapposte increspature adegua il suo respiro trasformandolo in un rinfrescante calore. Lo soffia in preda ad un’ansia di prestazione per calmare le creste delle onde accese qua e là di un lucore che sovrasta un verde ventre pieno di sinestesie amare che vede avanzare maligne verso di sé. 

È lontano dal bagnasciuga ma sta a disagio su quell’ampia spiaggia dorata piena di modulazioni simili a impronte digitali, ovvero ondulazioni della sabbia create dal vento durante la notte, così come è irritato dalle briciole del polpettone sparse sul plaid per il picnic della consueta uscita infrasettimanale. Nella logorrea dei suoi agitati pensieri rispuntano i suoi ossimori interiori, ideali per cavalcare l’audace paura dell’acqua alta e la rinnovata consuetudine nel preferire il mare nei giorni feriali di bassa marea. 

Spalleggiato dalle tante convergenti discordanze e dalla loro cerebrale formulazione letteraria, inizia a liberare l’ultima dose di serenità rimasta verso gli indomabili cavalloni per acquietarli, ma, a malincuore, lo ammette a se stesso, loro se ne fregano delle altrui agentività o dei giochi di parole intrise di mostruosi ed eccessivi aggettivi, accartocciandosi a catafascio sul bagnasciuga. Il susseguente riflusso dei frangenti che frena il fine corsa di ogni fronte d’onda e che congela l’evento ondoso di arrivo e risacca, lo porta a restringere lo sguardo sul breve tratto di riva; di conseguenza su di sé ripercependo l’estenuante ritmo delle parole interiori, il proprio flusso di coscienza. Oggi il pensiero è un mare in tempesta e le parole fuoco.

 

Rientrato in sé, valuta, nell’intorno, il conforto familiare e ciò che di familiare ritrova nel profondo dell’animo e lo conforta. Sa che qualsiasi forma di sollievo e di amore è un artificio e una necessità, figli dello stesso stratagemma che permette di abbracciare gli amici, i colleghi e i propri cari in modo naturale. Nelle tante considerazioni comprende che ormai, nelle classiche dinamiche evolutive e sociali, artificiale coincide con naturale, così come tecnologico con biologico. Dentro di sé gli schemi della natura si rapprendono e le sue innumerevoli mutazioni collimano e coesistono anche nell’infinite elaborazioni espresse in cultura; se ne convince, sa che c’è moltissima corrispondenza delle leggi della natura nella scienza, nella morale, nell’etica e in ogni attività umana sociale e politica. Quando sei pronto a vedere l’unione, la coesione, la fusione con gli altri, intravedi il naturale dappertutto e i ogni cosa si vedono legami, affinità, relazione, sincronicità, unione d’intenti.

È nella natura dell’essere umano.

 

Riassoggettatosi con l’ambiente che lo circonda si accorge dell’identico schema a strati delle onde marine nelle tante pagine sovrapposte tra le dita della moglie. Lei, distesa tranquilla al suo fianco, non è a conoscenza delle coincidenze delle sofisticate visioni del marito, sta semplicemente prendendo il sole mentre legge un libro. Immersa nel suo mondo incantato non si è accorta che la pagina destra sospesa in aria con il vertice pendulo ha preso la forma di un’onda che le sue dita stanno cavalcando.

Pochi istanti dopo, negli occhi del marito, le tante parole ricurve svirgolano in righe precipitose che si placano in uno scrocchio della carta volta. 

La natura si manifesta in mille modi senza ambire a conseguenze. 

La cultura, invece, ne legge l’intrinsecità, la comprende e la trasforma in visioni.

Per un effetto idiopatico percepisce il suono della pagina girata in un formicolio nelle dita della sua mano sinistra. Commosso per la sovrapposizione psicomagica, muove le falangi sventolando i polpastrelli tra di loro per imitar il suono delle pagine sfogliate. L’intermittenza del gesto fa brillare il suo anello nuziale sotto i raggi del sole. Per effetto dell’incantesimo la luccicanza gli fa alzare involontariamente il braccio quasi fosse un cobra incantato. 

Nello stesso istante diviene il serpente e il bastone! 

La cultura ha preso il sopravvento, la simbologia lo aiuta a proseguire.

Questa volta è Nehustan che viene eretto verso il mare, per placare i suoi impeti, per ammansire le sue forze. Ammaliato dai suoi stessi movimenti chiude la mano a cappuccio incurvandola avanti e indietro. Con quel singolare gesto inizia davvero a placare il continuo rollio dell’oceano. Provetto maestro di musica di fronte a un’orchestra affiatata, alza l’indice verso il cielo, lo punta verso il mare agitato e inizia a dirigere le scomposte brenne marine. 

Va pensiero … magico!

Ne è convinto e ci riesce! 

 

Nella parafrasi sinfonica generata dalla sua mente, ogni onda lambita dal suo gesto si spezza a metà aprendosi frattalmente a nuovi ritmi e melodie; in questo modo continua a concordare la propria armonia ai movimenti della marea. Con lo sguardo intento a concertare le onde che seguono il suo ritmo interno, si accorge che la spuma che si solleva in aria seguendo il tempo, cade in tanti chicchi di pioggerellina acida che buca la fresca schiuma delle successive increspature dei marosi. Di quest’ultimi, prima che la cresta della berma ordinaria ne inghiotta i frangenti sulla lunga linea di battigia, ne riosserva il risucchio; è come una lama scivolosa di bolle scoppiettanti che giunge a riva, spiana la spiaggia carica di eterne intenzioni corrosive e, spegnendosi, rientra per farsi ingoiare e ripartire di nuovo più potente. 

È da bambino che osserva le tante mutazioni create dall’azione dell’acqua marina; percepisce la forma della barra nel fondale increspato a riva e le varie morfologie della spiaggia sommersa. Conosce tutte le forme delle increspature che il vento e l’acqua generano sulla sabbia, da quelle lineari alle biforcate a diapason. Se le assoggetta con termini inusuali, persino troppo tecnici, come ora wind ripplesplunging e bedforms. Forme e parole che trasforma in appunti verbali per creare una nuova esperienza visiva e per rivisitare i mille contenuti emotivi da prelevare e conservare nell’inconscio. Ogni volta che le osserva rivive il mondo accademico e le parole del suo papà. Si ricorda di quando giocava nello studiolo/laboratorio del padre e ascoltava le elaborate frasi preparate per le lezioni ai suoi studenti universitari che pronunciava a voce alta; disquisiva sulla “Dinamica e difesa dei litorali” e sulle continue analisi delle evoluzioni delle aree costiere, così come ricorda il suo giorno fatidico, quando ha iniziato a calpestare la sabbia a riva e riconoscere le tante dune eoliche create durante le tempeste di vento e le mareggiate, con più rispetto e attenzione. 

Un mare di ricordi.

 

Delle stesse memorie è infarcito il suo presente.

Ritorna sulla coda della mareggiata che sperimenta davanti a sé e che va spegnendosi. La melodia del mare che ha scatenato si attenua. Il flusso interminabile di tornare e ritornare di sponda in sponda si interrompe più a sud, verso la costa frastagliata che nasconde, alla sua acuta vista, il minuscolo fiume d’acqua dolce: un rigagnolo flemmatico dei tanti temporali estivi che precipitano nel mare, ben altra cosa delle tracotanti righe di parole che scorrono come un fiume in piena sulle pagine al suo fianco. Più giù, addosso a quella barriera di scogli di origine vulcanica pieni di riccioli taglienti, si sorprende come altre onde strabuzzano il tetto biancastro delle creste in una marea di schizzi che sfiammano ulteriormente la sinfonia e l’aria dell’ultima caldaccia estiva. 

L’aria continua a disgregarsi sotto i colpi di un sole accecante, e i flutti, che vede ricomporsi davanti a sé, avanzano innalzandosi in tanti boccoli dalle creste spugnose e avvolgenti che iniziano a preoccuparlo, anzi, lo impauriscono. 

Un maremoto, di emozioni, di angosce.

La loro messinscena è un susseguirsi di affanni e sbuffi, un’accozzaglia di ringhi e sberleffi, di paffute sberle e perfide carezze e queste alterazioni psicotiche che d’abitudine controlla con normali dosi di benzodiazepine, liberano una brezza salmastra che sente avanzare perniciosa verso di lui. 

La sente che picchia sul viso e ghiaccia le emozioni cristallizzandole in forma di pensieri contorti e intuizioni di amore e di morte; un binomio fatale che all’improvviso avvampa dentro di sé nella luce muta di uno strano terrore. Quest’ultimo sentimento che ha già azzoppato varie volte il suo tenace spirito altruistico e che conosce molto bene dopo la strana morte della sorella scomparsa quand’era ancora adolescente, gli arresta il respiro appena avverte che sta per trasformarsi in sventura. Sventura che nella sua mente prende la forma terrificante di un’immensa matassa fluida color cremisi, un groviglio sanguinante simile ad una nuvola riccioluta e densa, una pozzanghera colma di firmamento sbranato in piena metamorfosi che pencola nel vuoto. 

L’aria prende il sopravvento sull’acqua.

E questo scambio umorale lo stravolge.

La sente crescere nel suo cuore accelerato ed esplodere in un principio di soffocamento. D’istinto porta la mano alla gola per liberare e prevenire la sua fame d’aria, ma quasi si strozza nella presa troppo stretta. Solo il sorriso che appare davanti ai suoi occhi della sua germana nei giorni meno sofferenti lo rincuora e lo porta a rilassarsi e ad allentare la presa. Non è mai riuscito del tutto a risolvere la sua dispnea psicogena e la sensazione di morte imminente che lo colpì alla vista del corpo della sorella steso sul marmo coperto sotto al lenzuolo verde dopo il brutto incidente. 

Sapeva, però, che ora la sua anima volteggiava sopra di lui e lo accarezzava.

 

D’un tratto è lui che prova a vedersi dall’alto, ad uscire dal corpo e liberarsi dei vincoli della terra, dell’aria e dell’acqua. È abbracciare lei e tutte e tre gli elementi.

Niente, la sorella questa volta non è lì con lui. 

Oggi, sono i tre elementi primari a soverchiarlo. 

Allora smette di morire. 

Tutto deve quadrare. 

Lentamente il fuoco interiore completa il quadro ippocratico della tetralogia dei temperamenti umani. Pitagora e la sua simbolica tetraktis lo tengono ancorato al suolo, pur sentendosi al vertice della piramide.

 

Ritorna in sé appena riesce a nascondere nel profondo le contorte visioni che ha percepito all’improvviso. L’altrove ritorna ad essere equidistante dal se stesso smarrito e dall’unicursale labirinto che punta dritto al suo cuore pulsante. 

Si rende conto che è vivo. 

Sente il cuore battere fuori dal corpo. 

Si volta, cerca l’altro sé stesso.

Avverte forte che un’altra creatura palpita in lui.

Non c’è nessuno, e non può essere lui.

Sarà l’uomo della sabbia.


Il deviante è di nuovo affiorato.

 

Riparte da lì, dal centro vitale di quella profondità organica, ma l’equidistanza riporta il mostro che abita i propri abissi a farsi carne, a lottare per emergere dalle proprie acque profonde e a continuare ad uccidere se stesso nel fuoco primordiale, con mille fisime, nel fisico e nell’anima.

Prova a placare l’ansia ritornando a specchiarsi nel ritmo delle onde.

Ma lo specchio d’acqua ora è una pozzanghera minacciata dal fuoco. 

Riosserva la frequenza dei flutti e la consistenza dell’acqua ridiventa semplice sudorazione: perspiratio insensibilis. Percepisce la fluidità dei propri liquidi umorali e li sente rimpantanarsi fuori dai polmoni. Provare ad abbeverarsi nella stessa aria respirata e buttarla fuori per ricondensarla verso le onde è un tutt’uno con la sua singolare appercezione.

È ancora sostanza pensante e fuoco, io elementale e globo luminoso.

Doppelgänger.

Ora sa che il terribile senso di distruzione di sé è in atto.

 

Perso nell’infinita identificazione guarda ancora una volta, nel loro lento susseguirsi, le onde avanzare mitigandole in emozioni, e più le osserva, più le sente tramutare in risacche che ristagnano nella sua anima in sentimenti corrivi. Avverte la salsedine attecchire sul più debole dei sentimenti che accende la sua benefica consapevolezza e la fluida vitalità; lo sente trasformarsi in muditā verso la moglie al suo fianco incantata dall’ultimo grande racconto di Jeff VanderMeer “Colibrì Salamandra”. Rivede nel titolo il mostro paracelsiano evocato e appena creato nei suoi meandri interiori. In un lampo quel doppio animale sostantivale lo percepisce come una chimera reale, un mostro mutaforme. Forse quelle due parole percepite come un unico sintagma sono il portavoce verbale della recente sensazione sull’icore che si sta componendo, sono la materializzazione di quella percezione ostile. 

L’intorno inizia ad essere contagioso, ora l’avverte denso, dentro e fuori di lui.

Inizia quasi a vederlo, ne sente i rantoli. 

Si chiede se è reale e se è foriero di un chiaro avvertimento di pericolo imminente o se la copertina che vede tra i polpastrelli della moglie è un’istantanea grafica della sua assurda visione delirante o se ciò che percepisce come altro da sé è la sensazione di altri, o se questo è il primo segnale che è giunto il proprio momento o, ancora, se è il segno che deve attivare una sorta di nefelomanzia oppure c’è qualche altro indizio esoterico che gli sfugge, o deve mettere in atto una forma più potente, una specie di bibliomanzia da leggere tra le pieghe della sua attuale dimensione allucinatoria, la quinta, obliqua ed esponenziale. 

 

Scosso dall’entropico intorno e dal visionario libro stretto tra le mani dalla sua donna, vede le dita sinuose di lei allungarsi come tentacoli da calamaro gigante verso di sé pronte a soffocarlo: l’unus mundus prende le forme della materia più terrificante. Comprende che il mostro si sta preparando a uscire del tutto dalla sua testa e si sta manifestando contro di lui attraverso il libro. Nello stesso istante avverte la brezza che s’aggrazia tra la plasticità del suo vecchio struggimento, la romantica Sehnsucht che, per l’occasione prova a modellare come alleata e ad espanderla in fortuna protettiva, in un fuoco d’amore verso i due figli intenti a giocare a palla intorno a loro sull’ampio arenile soleggiato. Stacca gli occhi dal libro e osserva i due gemelli sgambettare. Approva la loro disattenzione alla sua imperante aticofilia che oggi è troppo aggressiva e lotta per soffocare l’indifferenza e il cinismo di una natura che nel frattempo si sta materializzando in forma di mostro divorante. La Natura, l’infinita ed elaborata evoluzione e metamorfosi dell’essenza, dell’Essere in sé e per sé, è una concreta fusione tra mondi reali e immaginari, l’evoluzione in una nuova specie, un salto extra biologico.

Ecco, avverte un nuovo cambiamento, la natura è e ritorna selvaggia e sta prendendo la forma della materia infuocata, la malizia dell’aria corrotta e urticante, la consistenza di condensa agghiacciante, la porosità di agglomerato spugnoso, la compattezza di massa rutilante, la glaucità di minaccia nauseabonda, la ferocia di nuvola distruttiva. 

Un vortice di materia incandescente e rutilante.

Tutto il pessimismo che fine a poco prima presagiva e avvertiva crescere solo nella sua mente come rapporto costruttivo e autodistruttivo della natura dentro e fuori di sé, ora è realtà, è davvero là fuori, vortica in girotondo come una muta di dervisci posseduti che aprono le loro vesti simili a meduse urticanti per ammaliare tutti e divorarli e seppellirli in una risacca nell’universo più nero.

L’éidõlon di se stesso è pronto a divenire carne.

Può incominciare la catastrofe cosmica. 

Non può più fare nulla, quella cosa è più grande di lui. 

Decide di farsi fagocitare.

Davanti ai suoi occhi quell’informe massa inizia realmente a materializzarsi, generata dal nulla fluttua sulla superficie del mare e si espande veloce verso di lui e la sua famiglia. Più l’osserva e più si rende conto che non è solo lui a generarla.

Ne comprende la virulenza e l’aggressività. 

La trasmutazione è un atto creativo immenso, non può più essere frenato una volta partorito da una mente audace e corrosa dalla voglia di creare mostri e poi liberarsene.

Cioè, in quella mostruosa creatura e nei tanti schifosi bubboni che appaiono morbidi e cremosi, c’è un calcolato inganno e una ferocia che si rafforza con la paura altrui e l’innato desiderio di autodistruzione, una sorta di verecondia e imbarazzo, di lascivia e satiriasi e di altre degenerazioni umane che creano una involontaria spinta a sentirsi posseduti e a possedere, di incombere sulle cose o lasciarsi morire, di divenire altro da sé o disperdersi, e tutta questa altalena di sentimenti e inclinazioni innate crea e alimenta, quasi sempre, un immenso essudato cancrenoso che riempie ogni spazio vuoto apparendo come un’enorme empiema ricco di amiloide. 

L’intera natura si ingegna nell’arte della dissimulazione e del paradosso biologico. Ma è proprio con tutte queste discordanze che agisce e raggiunge il suo obiettivo, una tattica per mettere in atto la subdola strategia che la fortifica e si trasforma in un’immonda creatura distruttiva dalle mille forme incantevoli che meravigliano e attirano la preda. 

La materia soccombe, la materia incombe.

Se ne accorge e il panico prende il sopravvento. 

In un lampo avverte che quell’icore tremulo e purulento, che freme viscido e appiccicoso nei suoi occhi spalancati, cresce a dismisura e resta ben sospeso nell’aria in un organismo biologico complesso, un chiaro fenomeno di entanglement, la perfetta dimostrazione del realismo locale. Deve essere la sua forte essenza eterica ed elettromagnetica, una sofisticata creazione quantistica di aggregazione e distruzione della materia che si allarga e si restringe come un’onda stazionaria circolare, sferica, una interazione di particelle reali che sembrano non esistere, ma che riescono paradossalmente a mantenersi in equilibrio e occupare lo spazio, il vuoto assoluto, restando a distanza da qualsiasi possibile diversa minaccia molecolare.

L’aspetto delle cose che si trasformano sotto la spinta dei propri pensieri contorti, lo affascinano da sempre.

Coglie la potenza in atto di quell’essere “senza forma”, ma pur senza forma è l’essenza dell’energia e della massa. È materia infuocata e contiene lo spazio solido, liquido e aeriforme. Nel nuovo confronto e nell’analisi dei tre elementi: cielo, terra e mare, che lo circondano e lo determinano, realizza che l’intera massa d’acqua che poco prima gli appariva carica d’inimicizie nei suoi confronti, non gli è mai stata realmente avversa, anzi, quel simbolico liquido amniotico, attirandolo, lo riassoggetta a sé, alla sua volontà espansiva ed empatica, alla riappropriazione della propria materia formativa e primordiale, al ribollire dei propri impulsi interiori. 

Comprende ora che quella cosa sospesa che cresce a dismisura non è solo acqua. 

La osserva e l’aria ristretta diviene fuoco, magma luminoso e gelatinoso. 

Prima che l’acqua ritorni senza fine equale, si accende.

Sentendosi così aggressivo verso quell’ammasso rosso sangue, rimodella la sua attenzione verso l’intrinseca potenza distruttiva del mare. Abbraccia il tempo e invoca, provetto augure, Thalassa e Ponto di proteggerlo, e risaluta, come fossero a sé sorelle, ogni cresta d’onda, ogni vertice bianco che prima vedeva avanzare arcigno verso di lui. Ora, pur di condividere con l’Oceano la ribellione alle forze misteriose e potenti che presto distruggeranno l’umanità sulla terra ferma, le trasforma in schiume taglienti e dentellate, che assumono, nel bianco apice triangolare, la vertigine del becco, della lama o dell’artiglio che cerca di graffiare, lacerare e arpionare quella matassa disorganica che nel frattempo si sta trasformando in tante surreali forme incandescenti sospese a mezz’aria, in un agglomerato meiotico che, nei suoi ricordi scolastici, si sta concretizzando in un nuovo trionfo del surrealismo, in un’immonda e immensa creatura simile alla visione di Max Ernst nell’«Ange du foyer»; ovvero, lui lo vede trasformarsi in un mostro antropomorfo che si attorciglia e si riaccorpa in un gorgo infinito allungandosi e restringendosi in ogni direzione in un microbiota e in un daimon universale che divora le masse e le aggrega in un informe massa di creature sottomesse, in una eggregora disarmante, in un immenso sacco coriale di corruzione biologica e sociale, in un enorme babbano che marcia ricco di misteri disturbanti, restando prigioniero della fede e della speranza. 

Poi si rende conto che anche la politica, l’etica e la morale evocata nelle opere artistiche dei propri anni ruggenti, pur sani, esprimono la corruzione di un altro mostro che risponde a un basso sovranismo psichico, la stessa energia corrotta che infonde forza a un pianeta interiore fatto a pezzi e che si scompone e si aggrega davanti a sé. E tutte quelle espressioni surreali e sgargianti, la molteplice pareidolia che interagisce in lui e con lui, si mostra per ciò che sta diventando: un ammasso invasivo pieno di pance rigonfie, bocche dilanianti, ghigni aberranti, occhi spalancati e stralunati, nasi appuntiti e adunchi, denti aguzzi e cuori ribollenti e mille altre forme di metafore contorte con i quali il suo cervello psicotropo e super attivo che poco prima cercava di ammazzare l’apatia di una giornata assolata, ha trasformato in un pericoloso e vaporoso magma distruttivo, portatore di morte, il volto della guerra che esplode in continuo in questo ricorsivo ventennio e non solo interiore. 

 

Le fantasie sollecitate dalle sinapsi incandescenti non riescono più a spegnere l’angoscia delle forme mentali estranee a sé che si spostano nel tempo e nello spazio e generano il destino dell’essere che vive grazie alle paure, angosce, fantasie e illusioni e all’attrazione del pericolo. Sente che questo pericolo è imminente e che il suo futuro è arrivato al capolinea e lo sta materializzando nella pseudo forma di placenta informe sospesa nel vuoto che non vuole farsi contaminare da altre acque e dalla terra. Capisce che niente può l’acqua marina contro quella vasta e sconfinata massa rossa che avanza ringhiosa e appiccicosa come lava infuocata; riconosce che il mare non può arpionarla e tirarla a sé tirandola giù nelle profondità degli abissi a far compagnia al Leviatano e rinfrancare la Terra da questa invasione aliena che lentamente lo scompone e inizia ad attirarlo a sé. 

Nella veloce disamina che circoscrive, nel territorio intorno a lui, il proprio smarrimento, comprende che non è più l’acqua alta che lo terrorizza, ma è quella massa che in un baleno ha riempito la costa e si sta impossessando di ogni forma di vita, inghiottendola. È una forza superiore e ora gli sta facendo aprire le braccia e spalancare la bocca obbligandolo ad assumere la posizione di apertura, di sottomissione, di resa. Ogni tentativo di ribellione gli immobilizza l’intero corpo. Ognuna delle sensazioni di sé diventa liquido rosso che si smembra, si riaddensa e si lascia inghiottire. 

Diviene puro Archè. 

Parte della natura che sta modificando, la realtà osservata, ovvero sé stesso. 

La paura ha una sua aura, e la materia prima si sta trasmutando. 

Dove c’è materia c’è geometria, aritmetica, matematica.

Sente che presto scomparirà e si trasformerà nel mostro globulare e luminoso che osserva con terrore. Ciò che finora era, il dottor Mark Rotarg, bioingegnere al MIT di Boston, io, forza virile, robusto corpo di un uomo in piena attività fisica che fa squat e pulldown, ogni santo giorno che Dio manda in terra, ora è evanescenza, nuovo sé, mente estesa, massa gelatinosa senza scheletro, poltiglia senza anima, siero senza sostanza aggregante, umore galleggiante, diversa vis biologica, nuova essenza vibrante, entità disconnessa dal proprio centro vitale. Non si percepisce più come un essere integro, un organismo biologico intatto, ma una miriade di proteine e amminoacidi sparsi e dispersi in un cordone ricco di filamenti di pensieri contorti e conturbanti. Un insieme di brandelli galleggianti che prendono la via di fuga, assoggettati a pensieri che li tiene in tensione, in una seducente formula magica di intelligenza e cognizione materica. 

Il mare oscuro della consapevolezza. 

La lotta tra la volontà e il desiderio.

L’antico tremore dell’aria.

 

Preda della disconnessione sa che assumerà la forma distruttiva e addensante che vede davanti a sé e che rintrona, in un minaccioso brontolio, in un ringhio continuo e un orribile respiro rauco che è impossibile non ascoltare senza tremare. Poi avverte che il passaggio è avvenuto. Ora è altro. Si sente parte del cambiamento, nuova essenza e immersione totale nel poliedrico ed evanescente essere proteiforme.       

Nel pieno dello sconvolgimento interiore e materiale, con la ghiandola pineale che brilla immersa negli altri elementi neuronali sparsi dappertutto e che entrano in contatto chimicamente con altri gangli connettendosi in un’unica enorme forza, comprende che anche l’immensa massa aliena è natura, è creato, è vita, parte e parto di un mondo successivo, alternativo, di un nuovo fenomeno cosmico, di un nuovo lui, potenziato. E mentre si accorge che il vecchio sé è morto nella commozione dei propri pensieri ricchi di idealismo e orgoglio, di appartenenza cromosomica e razza evoluta, di gregge sapiente, di eredità antropomorfa, riesce a dire ad alta voce con la virilità compromessa:

– Tutto questo meringhio mi inghiottirà, anzi ci inghiottirà, e forse non sarà un male

Le ultime parole.

Una frase perfettamente pronunciata e sospesa nel nulla di quell’agorafobico cortile interiore dei sensi che si stanno appannando, parole che vagano tra gli elementi coinvolti e partecipa ad alterare il resto della natura che si ingegna a scombinare e ricomporre i propri organismi viventi in altri termini, in nuove e più potenti creature. 

Incredibile, però, il neoingegnere, l’uomo di scienza sotto stress, nell’allucinazione più totale e nel cambiamento estremo è riuscito a coniare una nuova parola, un neologismo che non servirà a niente e a nessuno, un sostantivo senza possibilità di annoverarsi il diritto di creare nuovi sinonimi e contrari, un lemma con il quale costruirci un racconto new weird o imbastire uno storytelling istruttivo o semplicemente un neo-vocabolo con tanto di hashtag da condividere sui social: #meringhio. 

 

Nella frammentazione del sé lentamente riesce ad aggregare il lisergico trisillabo piano davanti ai suoi occhi e nel riconfigurarlo per l’ultima volta, lo percepisce come un meme, così come percepisce il viso scavato del suo professore di lingue antiche che sorride al suo «Meringhio» appena sfornato. Lo vede che sorride e dinoccola ripetutamente la testa in segno di approvazione e ammirazione. 

Poi gli occhiali neri, gli occhi soddisfatti e la barba del prof così come sono apparsi scompaiono nell’imminente passato remoto; nel presente reale, invece, lui continua ad aggregarsi e a disgregarsi; nel mentre, ai suoi cari, non può segnalare né l’atroce tragedia incombente e né la dolce scoperta letteraria. Anzi, nella puerile analisi etimologica, comprende che ha anteposto il suo “Me” a un concetto di ballo/sballo, dolcezza e canto/scanto, misto al movimento sincopato del suono armonioso e alla danza di quell’essere davanti a sé che lo ha messo alle corde, legando però, alla sua, solo la parentela di altre creature mentali, la famiglia dei tanti vocaboli che vorticano nella sua mente contorta e alchemica: “Mercurio/Merengue/Meringhe/Ringhio”. 

La Mousiké è vita, ma il silenzio che genera è meraviglioso.

 

Nessuno si è accorto delle sue ultime parole pronunciate, così come nessuno dei suoi cari comprende che sta per giungere il proprio momento. Riesce solo per un nanosecondo, a prendere le distanze da quell’immenso globster che percepisce semplicemente come nuovo «Sé», come parte della “Cosa” che staziona dentro di sé e sopra gli altri, e nello stesso momento non riesce a nascondere sé stesso e né i suoi familiari dai contagiosi vortici di quell’infiammato fluido rutilante che è altro da sé. Non trova una via d’uscita.

La via non passa solo per il centro, di sé.

Il perturbante è nel centro vitale.

Perso tra i dialoghi interiori e i pensieri accomodativi, si rende conto che non riesce neanche ad urlare ai suoi piccoli di scappare. In lui è ancora forte sia la sensazione fisica del suo corpo disteso sul plaid e sia la gioia come padre che li ha portati con sé al mare per farli divertire. Talmente è forte la sua evanescenza interiore che resta ancora in piedi legata alla sua sensazione fisica. Così come avverte che il consueto picnic pieno di felicità ha preso la piega della tragedia. 

Per non spaventare i piccoli, riesce, con quel che crede essere ancora il suo pugno invincibile, ad allontanare il pallone che uno dei gemelli ha svirgolato verso di loro. Almeno questo crede di aver fatto, perché non è del tutto cosciente che la sua forma d’uomo, quasi svanita nell’aria, sia ancora un’entità corporea, terrena, piena di forza muscolare, di coscienza virile e d’immaginazione materica; di fatto, si sente come un fluido trans-biologico, una polvere cremosa e gelatinosa di desossiribosio, di guanina, timina, citosina e zucchero pentosio che si sta trasformando nella nuova massa colloidale che lo ha inghiottito a sé. 

Nei brevi tratti d’evanescenza capisce che è solo dal momento che ha osservato rapito quell’enorme fluido rosso, che ora è il suo corpo, con un attimo di distanza dalla percezione reale dei sensi, sotto i vestiti, ha iniziato, lento e corrosivo, l’avanzata metamorfosi. Apuleio, nelle letture estive, lo aveva messo in guardia dal lasciarsi coinvolgere dalla propria instabile coscienza e dalla propria reale forma animale: si è ciò che si osserva, si assume la forma dei propri pensieri.

L’anima ritorna animale.

Adesso che non si vede più in un corpo umano, ma ne avverte i fremiti e i palpiti che hanno sconquassato ogni suo piccolo tratto muscolare prima dell’irrigidimento generale, sente di essersi trasformato prima in un blocco unico, come gli elementi biologici che immergeva nell’azoto liquido durante le lezioni di chimica e successivamente come polvere liofilizzata. Sente che anche i peli sulle braccia sono diventati irti e non per la paura; li ha percepiti mentre crocchiavano in minuscoli trattini simili a spaghetti di grano duro che la madre spezzettava per farne minestra di ceci fitta. Finanche l’astratta parola “fitta” gli si è sostantivata facendosi avvertire tra le costole, per poi farlo rantolare contorcendosi scomposto quasi affetto da bendopnea.

Il male dura poco, il malessere è eterno.

 

Ora che le diverse sembianze si sono alleate alle apparenze e il suo corpo non è più steso a terra a cuocerci sotto al sole, non trova più le forze che lo liberino dal sortilegio. Nemmeno la tardiva bontà dei ricordi e gli istanti della dolce infanzia che lo hanno immerso a rivivere piacevolmente le prelibatezze preparate con amore dalla mamma, sono riusciti ad addolcire il disastro in atto che gli asciuga ogni memoria retroattiva, quella ultima, finale, che fa rivivere ad ogni essere umano l’intera vita a ritroso, mostrandogli ogni colpa, ogni piacere, ogni emozione, ogni amore. 

In questo stato di animazione sospesa nel vuoto, ovvero, nello stato di risucchiato, si è reso conto che anche la moglie si è irrigidita con lo sguardo fisso verso l’enorme nube cremisi. Da lì a poco quel che prima era solo lui e adesso è l’enorme bubbone marcescente, cioè un enorme lui e altri esseri dentro di lui e nello stesso istante tanti parti di lui dentro estranei, non più estranei, sa che l’attirerà fino a divenire un nuovo tutt’uno anche con lei, una nuova cosa con un sé molto più grande. E quel sé lo lascia riflettere sull’amore e sulla morte, sul continuare a sentirsi marito, parte di una coppia, intriso di ammirazione verso la propria metà e a cercare di capire se potrà essere, anche con lei dentro di sé o lui dentro di lei, ancora un’unica entità naturale e spirituale, l’antica figura primordiale della formula sacramentale che sancisce la buona riuscita di un matrimonio “uniti nella buona e nella cattiva sorte”. 

         Comprende che la può riavere con sé, la rifarà sua. Definitivamente.

         Dal sì pronunciato sull’altare passa veloce al frutto del loro amore. Si domanda che ne sarà dei suoi figli, dei due gemelli bicoriali, e pur essendo lui un mostro distruttivo, completa essenza divorante, materia biologica contagiosa e galleggiante, immenso flusso violento di una nuova forma pensante e cosciente, si rivede marito, padre, tutore e responsabile dei due adorabili pargoletti. 

         Non può lasciarli da soli sulla terra. 

         Deve rifarli suoi. Unirsi a loro, unirli a sé.

 

         Passeggero e pilota del grande verme d’aria appena creato, attraverso gli interstizi delle tante pieghe e dalle fessure dei pori che sono infiniti occhi di vedetta, osserva i due gemellini giocare tranquilli. A loro volta i suoi cuccioli d’uomo non percependo il pericolo che incombe su di loro, continuano a tirare calci alla palla; non si sono accorti di quella massa silenziosa che li avvolge e che oscura il sole. Ma l’avere coscienza di sé e comprendere che il proprio essere è in pericolo è un attimo, quello fatale che apre le porte alla fine del mondo, del proprio mondo.        

         Il secondo nato, avvertendo di essere pervaso dall’ombra e dell’anomalia del mutabile, cerca dapprima il padre senza riuscire a vederlo nei dintorni; sgomento intravede una parvenza di madre impietrita verso qualcosa che la spaventa e che subito terrorizza anche lui. Premuroso prende per mano il fratellino correndo veloce da lei. 

         Toccandola ripetutamente e stanco della sua passività al richiamo disperato della catartica parola “mamma”, non può far altro che seguire atterrito con gli occhi immersi nelle lacrime i brandelli di madre che vengono risucchiati verso il cielo. Sconvolto posa gli occhi sulla soffocante massa che vortica famelica sui loro corpicini, e lì si accorge che già lambisce ogni loro gesto e che presto li succhierà dentro di sé. Nell’attimo che le pupille del piccolo comprendono la distruttività dell’immensa massa putrescente, i suoi occhi si riempiono del magma incandescente; in un lampo realizza che la sua vita sta per essere stroncata, come prima è avvenuto alla madre e forse al padre. Svelto cerca di schermire gli occhi al fratellino con il plaid, ribaltando libro, piatti e vivande, ma non c’è stato nulla da fare, ormai l’intera famiglia è preda e parte di quel magma putrescente, di quella Nube della conoscenza, dell’intera collettività. 

         Ognuno di loro è l’universo osservato. 

 

         Tutti e quattro sono stati inghiottiti e riuniti nell’identico corpo che ospita l’anima familiare in un’unica biologica dimora, in un fiume di coscienza infinita che trattiene ogni essere dentro di sé e lo trasforma in un intenso flusso interiore che, per i più riflessivi e distaccati, viene percepito come inconscio collettivo, coscienza infinita.        Infatti, dentro quell’effluvio galleggiante ognuno è parte del tratto comune e insieme di individui che si comporta e pensa come una indissolubile unità, un cenobio di sottoposti alle stesse regole, un pleroma invincibile e inattaccabile e non più entità disarmonica, psiche disgregata o anima primordiale preda degli eventi.  

         Un immenso etere rovente. 

         Gregge globulare.

         Plasma universale ad alta frequenza.

 

         Chiunque di loro, pur essendo unito e separato, avvolto dalla morbidezza e dall’impalpabilità, avverte la propria intima scintilla generante unita a quella di altre immortali emanazioni spirituali e animali, un essere con un ruolo consapevole, nel vivo della propria responsabilità di sopravvivenza e non un parassita della comunione. 

         Lì dentro, confortati dal riparo e dall’abbraccio degli altri corpi consimili e finora estranei, di malcapitati dalla sorte endemica, della convivenza di diverse bestie e di altri organismi animali, dell’afflato affettivo, di ogni altra emanazione biologica, ognuno fluisce in un’altra individuazione materiale e mitocondriale verso l’interezza organica di una nuova specie vivente. Insieme ci si sente diversi e se stessi e nello stesso momento si ha la consapevolezza di essere diventato una rondine fusa in un lombrico, un asino in una cuoca, un imprenditore alle prime armi in un pellicano, un’upupa in un micino: insomma, un simbionte dalle mille interazioni interspecifiche. Così come ci si percepisce nella forma ibrida e contrastante, uno strano individuo di terra e di aria, come un grillo che striscia nelle viscere della terra o un serpente capace di volare, una pulce capace di ruggire o scazzottare come un canguro, un energumeno in grado di belare o un criceto propenso ad abbaiare, un povero diavolo che non smette di frignare o un immenso cuore in grado di piangere, di provare freddo o di lasciarsi accarezzare, di contrarsi o lasciarsi attraversare, assaporare, suggere, cagare, bere, pisciare, scatarrare, vomitare.

         Lui ora è tutto e tutti i loro miasmi.

         E mentre avverte il proprio addensarsi, il sapore degli altri diventa urticante e soave, la pasta d’uomo si amalgama nella fragrante miscela degli umori giovanili, i fermenti lattici del colostro di una neomamma diluiscono il piscio del vicino corrotto, la saliva del prete invidioso squaglia il mestruo del menarca della primogenita del gelataio ambulante, il meconio di un’infante spoltiglia la curiosità di un professore e tutto diviene fragranza profumata per gli impavidi, enorme essenza acidula per gli indolenti, amalgama di fetida merda per i silenziosi, succulento pus cremoso per gli spiritosi, cheratina per gli intrepidi e spericolati, vischioso muco per i vigliacchi e poveri di spirito, gelatinoso piscio per i nullafacenti, cispa per i chiacchieroni, cartilagine per i pusillanimi, nauseabondo sudore per i beati, granuloso sebo per cinedi. 

 

         In preda a questo fermento, d’un tratto, l’entità corrotta che si percepisce ancora come pater familias avverte che l’annessione delle sue creature accentuerà la sua ossessione, che ogni interferenza con altre vite genererà maggiore lascivia e nuova virulenza, l’alterigia diverrà capziosità, l’acribia si adeguerà e prenderà la forma della rinuncia, la deferenza abbraccerà la soggezione, l’amore traslittererà in malore e la condivisione morale andrà in malora. Insomma, Mark, nella sua nuova forma ultra-senziente, avverte di essere contemporaneamente la moglie e i suoi due figli, la tenia della vecchia signora che alloggiava fino a poco prima nel camper di fianco a loro sopra la duna eolica e ogni altro essere unicellulare, i mille insetti e microbi, nonché la moltitudine di animali di terra e di aria che sono lì con lui in metabiosi. 

         In quell’immenso universo di combustione ininterrotta riesce a sentirsi Uno, centomila esseri tra delirio e lucidità dell’io, un enorme essere immorale e immortale che comprende di essere sé stesso e l’io degli altri da sé. 

         Una Pantalassa primordiale e venefica.

 

         Nell’analisi della frammentazione e della metamorfosi del pensiero coatto, parcellizzato, si accorge però che solo la fauna marina è stata risparmiata alla mattanza terrena. In una rapida valutazione considera i pesci fortunati nonché plausibili sopravvissuti all’olocausto in atto; un istante dopo si convince che invece proprio loro dovranno sentirsi gli esclusi, i non privilegiati, i non designati alla nuova evoluzione della specie animale, perché solo chi disintegra il proprio io diviene parte di uno dei migliori mondi possibili e partecipa all’esplosione della vita e alla meravigliosa prova della natura. Nella nuova forma, lui, come i fortunati come lui, considera che non saranno più prigionieri o schiavi della casualità e dell’evoluzione lenta e continua, ma solo variazione improvvisa, eterna clonazione e perpetuo risveglio, brodo primordiale e vuoto cosmico, totalità ed essenza unitaria, molteplicità e indeterminazione, polipresenza e nullità, interezza psicofisica e profonda eutimia. 

         In questa personale e sconquassante sensazione sa che chiunque si troverà nei paraggi dell’area investita dall’enorme onda magmatica, ne subirà il fascino e ne resterà rapito. Ogni sguardo che si poserà sopra i tanti brandelli di materia che ora contiene ed è sé stesso che si lacera e diviene frammenti multi-copia di tanti Mark, ne diverrà parte indivisibile e inindividuabile. Simili a fotoni gemelli che si attivano nel medesimo istante a distanza, ogni sottile fremito legato a flebili respiri e piccole contrazioni, metterà in contatto tra loro la diversa trama e rete di lacerti che inizierà a ribollire nel flegma, senza riconoscere più testa e piedi, dorso e torace, unghie o artigli, braccia o zampe, pelle e peli, sesso e coda, solo enorme DNA cosciente e scomposto, rimodellato a somiglianza di nessuno e di tutti gli esseri viventi contenuti e divenuti. 

         

         Mark, nella frammentata distinzione di sé, avverte che la distanza all’interno dell’ammasso globulare è annullata, ognuno è al centro del corpo informe dell’ectoplasma e nello stesso istante sui bordi esterni del plasmalemma. Presenti lì con sé e dentro di sé avverte la bizzarria dei cavalli e dei moscerini, la tenerezza dei grilli e delle talpe, le leggiadria delle donne e dei bambini, l’ingordigia degli scoiattoli e delle formiche, l’aggressività degli altri uomini e di miliardi di virus, l’ottusità dei lombrichi e delle galline, le arroganze delle volpi e dei pipistrelli, la temerarietà delle tartarughe e delle civette, la cocciutaggine dei topi e dei centopiedi, la polifrenia dei vermi e dei piccioni, la malinconia dei cani e dei coccodrilli, la caparbietà degli asini e degli scarafaggi, i disinganni dei colibrì e delle salamandre, già, le salamandre alligatore e altre e altre forme legate alla determinazione, all’alterità e alla casualità, alla musoneria e all’euforia della vita che ti fanno essere nello stesso istante membro e membrana, scheletro e citoscheletro, filamento e dendrite, vescicola e mondo extracellulare, preda e predatore del polimorfismo che ricaratterizzerà i propri nucleotidi, trasformandoli in variante rara, diversa, semplice CODIS, elementare singolarità nell’ammasso globulare. Lì dentro ognuno bivaccherà in un diverso sé e nella propria consueta coscienza personale e collettiva, parte e diversità in equilibrio biogenetico, corpo e anima, dimora e ospite di una nuova e avvincente Arca Sacra.   

 

         Eppure, pur essendo assurdo, qui, dentro questa sorta di mostro alieno, nulla è disordine, entropia o distruzione, tutto è innovazione biogenetica e parte della trasmutazione, si è multi-individuo e unica essenza pluricellulare, totalità è parte necessaria e vitale di un immenso cosmo intergenico, totipotente. Diversa evoluzione delle precedenti specie terrene, caos deterministico, forma biologica che sa essere espressione mitologica di una nuovissima rappresentazione zoofora. 

         Catturato da questa continua metamorfosi organica ogni essere vivente indipendente dai propri geni e dalla propria individuazione di sé potrà percepirsi un mostro o una figura mitica, un essere reale o immaginario, un’allegoria vivente o un’immensa chimera, una blasonata anfesibena o una divorante echidna, una anguicrinita gorgone o una diabolica idra, uno sgambettante sciapode o una velenosa manticora, un elegante centauro o un fiammeggiante qilin, un piumato grifone o una dorata leucrotta, un orecchiuto panozio o uno scapestrato blemma, un filamentoso ectoplasma o un fluorescente fantasma, una errabonda larva o un informe bardo, un puro angelo o un ostile demone, oppure semplicemente un onnipotente divinità, Dio o il Nulla. 

 

         Mark, per quel che ancora percepisce in lui e fuori di sé, si accorge che oltre ai pesci non avverte traccia, o forse sarebbe meglio dire non sente la presenza neanche degli elementi vegetali e degli stabili elementi minerali; loro, i diversi, evidentemente, non vengono risucchiati e coinvolti da questo potente magma biogenetico che anche se saturo di esseri biologici che fino a poco prima vivevano lì intorno, continua a crescere e assomigliare a un’isola piena di sapori, di fragranze ed essenze che naviga nell’atmosfera, un’enorme ameba chaos che fermenta, si squaglia e si riaggrega e che cambia entità e fisionomia in ogni substrato coinvolto. Tutti lì dentro sono nello stesso momento se stessi e l’immenso meringhio e ognuno freme, vibra, naviga nell’intenso respiro dell’altro, vive nel corpo lacerato dell’altro percependosi vittima e assassino, custode e aguzzino, carnefice e giudice, parte di un infinito sistema combinatorio, una fusione di universi e di mondi, una permanenza costante e arbitraria, una variazione continua e caotica, un oceano di provvisorietà e un’aberrazione della medesima essenza, un insieme indeterminato e allotropico della stessa sostanza, un universo di interezza e frammentarietà, un eterno intervallo di espansione e di spazi adiacenti pieni di nuova inesistenza, un imponderabile vuoto esistenziale ricco di antimateria, un’esplosione di mondi innominabili. Brodo primordiale. 

La grande Bestia dell’Aria.

         L’Apocalisse.

         Una terribile pandemia. 

         La fine del mondo. 

         Un mondo finora sconosciuto, che percepiamo e desideriamo in continuazione. Ma quando lo comprendi, se lo comprendi non sei Dio. Dio crea ciò che effettivamente crea e con altrettanta determinazione decide di distruggere ogni cosa, in tutti i piani temporali. Questione di tempo. 

         E questo è un limite di Dio. 

 

         Poi lentamente la grande massa si quieta. Così come si è mostrata a Mark a ridosso del mare, prima piccola, tracagnotta e veloce e adesso enorme e sconquassante. Lentamente si sposta più giù tra le anse della collina, poi su, verso l’eterno Monte Meghiddo. Lì sopra congloberà a sé altri vertebrati, nuovi tetrapodi, artropodi, bestie, fate, elfi, gnomi, e altre creature dei boschi oltre all’intero scibile umano ricco di nuovi martiri, disillusi, disgraziati, infelici, flemmatici, sanguigni, fuor di testa, psicotici, stressati, beati, zotici, esaltati, criminali, melanconici, bipolari, filosofi, artisti, scrittori, emarginati, eroi, santi, timorati di Dio e mille e mille altre pecorelle smarrite. 

         Fra poco il suo indiscreto vorticare esploderà verso la vetta avvolta dalla neve e dalle nubi, strusciando tra le querce rosse e i cornioli, tra gli aceri e le betulle, tra la terra e le radici avvolte dall’intricata rete sotterranea dei funghi. Lì farà sua anche la furbizia degli avvoltoi e il coraggio degli orsi, la destrezza dei cerbiatti e la flemma dei ghiri, l’arroganza e la spocchia dei montanari nonché l’acuta vista delle aquile, la destrezza delle api e la coscienza distruttiva del resto degli esseri umani. 

         Al pensiero dell’intera razza umana distrutta in un lampo finisce l’autoscopia. 

         Il ritornare in sé accende nuovi scompensi.

         Rifiata. Un lungo sospiro lo riaggrega.

         Sente che si è calmato, si sveglia. 

         Abbandona il sogno.

         Riporta in sé l’intorno e le nuove considerazione sul reale.

         Fa suo il ronzio di una zanzara vicina all’orecchio destro e si bea del lento indugiare di un minuto curculionide tra i peli della sua gamba arrossata dai raggi ultravioletti, lo lascia scorrere e districarsi.

         Osserva il cielo, le nuvole e altre meraviglie del creato.   

         Si gira dappertutto e sorride al mondo.

         Inaspettata ritrova la moglie al suo fianco che si accorge delle sue attenzioni e gli ricambia il sorriso; nella tenerezza degli sguardi si scartoccia dalla pigra quiete e tende verso di lei, le dà un bacio. Mark tra il meravigliato e il conturbato sente sussurrarsi un dolce: “Bentornato tra i vivi”. 

         È felice del suo ritrovarsi ancora sdraiato sul plaid tra il via vai delle formiche legionarie, chiama a sé i pargoli che sporchi e sudati si avventano felici su di loro. Dell’arrivare sorridenti tra le braccia dei genitori, affaticati e scomposti, neanche a dirlo; il primo calpesta il libro che ha fatto cadere dalle mani alla madre squinternando l’ultima pagina appena letta e strusciando le altre sulla banana che è esplosa sporcandone i bordi inferiori, l’altro, invece, frena la corsa affettuosa sulla stanghetta degli occhiali, spaccandola. D’acchito Mark, senza dissimulazione ironica dice sorridente: “Bentornata realtà! Quanto mi siete mancati”. 

 

         La routine ritorna ad essere la perniciosa vita nella sua alienante pienezza. Proprio questi semplici momenti di esistenza coniugale e familiare lo riportano velocemente nel presente tra le anse del reale monotono e le pieghe della deprimente consuetudine, lontano dalle sue recenti fantasie macabre e dall’avvincente epigenetica ambientale e dalla fine del mondo.

         L’io ama morire in mille modi e nelle più spericolate forme di avventura, ma soccombere nell’abitudine domestica della realtà quotidiana che assume la fisionomia consolatrice del solito andazzo è il peggiore. 

         Benché Mark continui a chiamarla “malleabilità fenotipica”, con buona pace per i semplici di spirito e degli accomodanti che preferiscono solo eventi continui e deterministici rispetto a chi li desidera discontinui e probabilistici sapendo di creare l’effetto osservatore e di sentirsi come colui che cambia l’evento semplicemente guardandolo o sognandolo, le precedenti fantasie estreme e le angoscianti e assurde visioni sono pur sempre avventure mentali, reali, deliri di coscienza di sé che ogni individuo deve compiere, allucinazioni e azzardi di micro e macro evoluzione da esperire almeno una volta nella vita, per riformulare la tanta immaginata e voluta pienezza di sé. 

 

         Riconosciuto il dirizzone psicofisico momentaneo, ritorna ad essere l’entusiasta bioingegnere che sa come ricostruire e tenere saldo il corpus di paternità e la sicurezza familiare del proprio areale genetico. Come sempre, però, pur essendo maschio alfa, devono essere gli altri a determinare il proprio autoriconoscimento. 

         Svelta, la moglie, regina del sortilegio femminile, provetta Fòtide, gli accarezza la guancia ammorbidendo del tutto la spigolosità del suo viso in una gioiosa forma ovale. 

         Mark, accortosi della metamorfosi avvenuta per mano della consorte, fiero di sé si tira su, poggia le mani sui fianchi esprimendo così la tenerezza ricevuta da marito nella premurosità di padre e nella piena protezione verso i propri figli. 

         “Ehilà gemelli, è ora di divertirsi. Dai ragazzi, venite da papà, andiamo a fare un bel bagno e a giocare con le onde! Amore, lascia il tuo racconto e vieni a divertirti con noi”.


Franco Chirico

Roma, 12-2022





Proprietà letteraria riservata
© Franco Chirico, 2022
Copyright © INGEGNI Edizioni
COLLANA  La Ninninedda 

Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni riproduzione, anche parziale, non autorizzata.

------------------------------------------------------------------------------------------


© Max Ernst «L’ange du foyer» (Le triomphe du surréalisme), 1937 
Olio su tela  - cm 114x146 
Collection Hersaint © 2024 ProLitteris Zurich