lunedì 18 novembre 2024

YOUNIVERSE - Il famelico Meringhio

 

Racconto di FRANCO CHIRICO ispirato dall’opera pittorica di © Francesco D’Isa, 2022

Red dragon over the sea by Hokusai by James Jean”.





YOUNIVERSE

Il famelico Meringhio




L’estenuante ritmo dei flutti marini avanza nei suoi occhi e lo incanta. I ridondanti sussulti dei marosi color crisocolla lo ammaliano. Su quelle sovrapposte increspature che riempiono il basso orizzonte, prova ad adeguare il respiro trasformandolo in un rinfrescante calore per calmare il verde ventre gonfio che vede avanzare maligno verso di sé. Forse deve restringere il campo visivo, abbandonare l’ampia introspezione esterna.

È lontano dal bagnasciuga, ma è come se fosse lì, immerso nella fredda pancia dell’oceano. In realtà se ne sta tranquillo disteso sulla spiaggia dorata colma di ondulazioni della sabbia che sembrano immense impronte digitali create dal vento durante la notte. La salsedine inizia ad irritarlo, picchia sul suo viso, e se non bastasse, le briciole del polpettone sparse sul plaid per il picnic della consueta uscita infrasettimanale con la famiglia, fanno il resto sulla pelle arrossata dai raggi eccessivi.  


Sommerso dalle tante convergenti discordanze concupite in sensazioni contrarie e contrastanti, le cataloga in una cerebrale formulazione letteraria. Le dispone su tante righe da ramificare in una scrittura che si traduce in un resoconto di una visione immaginale. Sulle prime appunta l’ultima dose di serenità rimasta, con essa prova a calmare gli indomabili cavalloni, ma, a malincuore, lo ammette a sé stesso, loro se ne fregano delle altrui agentività, accartocciandosi a catafascio sul bagnasciuga, da qui un pensiero laterale “queste righe non mi appartengono, non sono mie”. Sulle successive annota il susseguente corrosivo riflusso dei frenetici frangenti che spianano il fine corsa di ogni fronte d’onda trasformando il movimento infinito in un eterno evento ondoso di arrivo e risacca, la perfetta corrispondenza con il ritmo dei suoi battiti cardiaci. Questo lento rintuzzare, questo tira e molla, lo porta a restringere lo sguardo sul breve tratto di riva, e qui, di conseguenza su di sé che le osserva, ripercependo la fusione tra il proprio flusso di coscienza e le furiose onde dell’oceano che rinfrescano i suoi tanti pensieri scoppiettanti. 

Oggi i suoi pensieri cercano la sintonia con il mare in tempesta che lo osserva e genera, mentre le ondate di parole sono fuoco per disperderlo nell’aria.

 

Ritorna sulla terra, rientra in sé, valuta, nell’intorno, il conforto familiare e ciò che di familiare ritrova nel profondo dell’animo di chi lo conforta. Sa che qualsiasi forma di sollievo e di amore è un artificio familiare e una necessità biologica, figli dello stesso stratagemma che permette di abbracciare gli altri, considerandoli amici, condomini, colleghi, propri cari e sentirsi integrato in essi e con essi in modo naturale. Nelle tante considerazioni comprende che ormai, nelle classiche dinamiche evolutive e sociali, artificiale spesso coincide e si alterna a naturale, così come tecnologico a biologico.

I ritmi delle onde mentali e le parole che sgorgano iniziano ad appartenerlo.

Dentro di sé gli schemi evolutivi della natura che lo abbraccia sono stati sempre complicati da esprimere e le innumerevoli mutazioni fenomenologiche percepite collimano e coesistono anche nelle infinite elaborazioni mentali, perché nel definirla e nel comprenderla, quindi accettarla, nel più ampio spettro nessologico, la Natura diventa Cultura. Se ne convince, sa che nelle leggi del visibile e dell’invisibile la metafisica ha una forte corrispondenza e compenetrazione con la fisica, la scienza con la coscienza, il normale con l’anormale, l’umano con l’inumano. Sa anche che quello che ora lo lega all’intorno e all’analisi logica di una coscienza in fermento che si lascia affascinare dall’impossibile che prende forme inattese e simboliche, nasce da una fonte soprannaturale, esterna a sé, e non è sottrazione, deriva, mancanza, ma alterazione, ridondanza, abbraccio.


Ecco perché ogni volta che si è pronti a vedere l’unione, la coesione, la fusione delle sensazioni fisiche e psichiche, i principi morali e i sentimenti comuni negli altri e negli eventi esterni a sé, anche innaturali, animistici, si riscontra in essi un processo naturale, evolutivo. Dappertutto con gli altri esseri e in ogni cosa si riesce a vedere legame, affinità, relazione, sincronicità, unione d’intenti con ciò che ti circonda. 

L’universo, quell’immenso territorio mistico e magico che ci conforma a sé, una volta esperito, trova sempre qualcuno per farsi rappresentare come inclusione, unicità, reciprocità. È nella natura dell’universo la legge d’appartenenza o di esclusione, così come è nell’essere umano riconoscersi nell’altro e nel modificarsi, adeguandolo a sé o adeguarsi agli altri e all’intorno. È così che le cose coincidono, si assomigliano, vediamo la nostra esperienza in essi.

 

Nel riassoggettarsi con l’ambiente che lo circonda si accorge che c’è un identico schema a strati tra le onde marine e le tante pagine sovrapposte tra le dita della moglie che stringe un libro. Non sta imitando l’universo è lui che si manifesta nelle cose: ars gratia artis. Lei, distesa tranquilla al suo fianco, non è a conoscenza delle coincidenze delle sofisticate visioni del marito, sta semplicemente prendendo il sole mentre legge un romanzo. Lì, immersa nel suo mondo incantato che gli rimanda la lettura, non si è accorta che la pagina destra sospesa in aria con il vertice pendulo ha preso la forma dell’onda che le sue dita stanno tranquillamente cavalcando e che tormenta i pensieri e le visioni del marito. 

Lo schema del mondo che soggiace alle proprie visioni e ai propri pensieri è dappertutto, alcuni lo vedono altri lo manifestano.


Pochi istanti dopo, negli occhi dell’uomo che sta generando incredulo la realtà che lo domina, le tante parole stampate ricurve svirgolano in righe precipitose che definiscono la pagina stampata placandosi in uno scrocchio della carta volta. La natura è di per sé generativa, crea mutazione e successive conseguenze ed è sempre disponibile a farsi comprendere nell’attimo che avviene, chi possiede i sensi della visione ha occhi per riconoscerla, conoscerla. La cultura, invece, è celebrativa, chi ne legge l’intrinsecità, la governa e la trasforma in visioni.


Per un effetto idiopatico percepisce il suono della pagina girata dalla moglie in un formicolio nelle dita della sua mano sinistra. Commosso per la sovrapposizione psicomagica, muove le falangi sventolando i polpastrelli tra di loro per imitar il suono della pagina sfogliata. L’intermittenza sinestetica del gesto appreso, fa brillare il suo anello nuziale sotto i raggi del sole. Per effetto dell’incantesimo creato, la luccicanza gli fa alzare, roteare e abbassare involontariamente il braccio quasi fosse un cobra incantato. Nello stesso istante l’incanto diviene il serpente e il bastone che muove la spirale degli eventi! La nuova Metamorfosi che inizia a manifestarsi inizia a farsi vedere. L’intelligenza del corpo si appropria del processo di mutazione, ti trasforma in continuo, si diviene altro nell’atto stesso che si decide di creare. Riesce a percepire il controllo sulle cose.

La cultura ha preso il sopravvento, la simbologia che attua come astuzia generativa lo aiuta a proseguire nel rendere attiva la sua visione trasformativa.


Ancora una volta è Nehustan che viene eretto verso il mare, per placare gli impeti e per ammansire le forze generative, anche quelle non proprie. Ammaliato dai suoi stessi movimenti del braccio, chiude la mano a cappuccio incurvandola avanti e indietro. Con quel singolare gesto inizia davvero a placare il continuo rollio dell’oceano. Provetto maestro di musica di fronte a un’orchestra affiatata, alza l’indice verso il cielo, lo punta verso il mare agitato e inizia a dirigere le scomposte brenne marine. 

Va pensiero … magico!

Ne è convinto e ci riesce! 

L’acqua inizia a placarsi, risuona a ritmo costante nei suoi movimenti.

 

Nella parafrasi sinfonica generata dalla sua mente, ogni onda lambita dal suo gesto si spezza a metà aprendosi frattalmente a nuovi ritmi e melodie; in questo modo continua a concordare la propria armonia interiore ai movimenti della marea. Con lo sguardo intento a concertare le onde che seguono il suo ritmo interno, si accorge che la spuma che si solleva in aria sta seguendo il tempo, il tempo a sé consono, e cade frammentandosi in tanti chicchi di pioggerellina che buca la fresca schiuma delle successive increspature dei marosi. Di quest’ultimi, prima che la cresta della berma ordinaria ne inghiotta i frangenti sulla lunga linea di battigia, ne riosserva il risucchio; li vede fusi che si allungano in una lama scivolosa di bolle scoppiettanti che giunge a riva, che spiana la spiaggia carica di eterne intenzioni corrosive per poi spegnersi e rientrare per farsi ingoiare e ripartire e partecipare di nuovo più potente, modificando l’intorno, la costa, mescolando la sabbia, corrodendola. 


È da bambino che osserva le tante mutazioni periodiche create dall’azione dell’acqua marina; ormai percepisce, senza vederla, la forma della barra nel fondale increspato sotto riva e le varie morfologie della spiaggia sommersa che occhi normali non avvertono. Così come conosce tutte le forme delle increspature che insieme acqua e vento generano sulla sabbia, così come solo l’azione dell’aria crea quelle ondulazioni lineari e parallele alle micro-dune biforcate a diapason. Nel rivederle anche lì davanti a lui, fa suoi anche i tanti termini inusuali, persino troppo tecnici, quale wind ripples, plunging e bedforms usati spesso dal padre. Forme fisiche, reali, generate e legate da parole definitorie che nel riecheggiarle le ritrasforma in appunti verbali per poter creare la prossima esperienza visiva e per rivisitare i mille contenuti emotivi da prelevare dalla memoria e conservare nell’inconscio da riscrivere. 

Ogni volta che le osserva rivive il mondo accademico e le parole del suo adorato papà. Si ricorda di quando da bambino giocava nello studiolo/laboratorio del padre e ascoltava le elaborate frasi e i discorsi preparati per le lezioni ai suoi studenti universitari che pronunciava a voce alta per disquisire sulla “Dinamica e difesa dei litorali” e sulle continue “Analisi delle evoluzioni delle aree costiere”; così come ricorda il suo primo giorno di mare da solo, fatidico, coinvolgente, quando ha iniziato a calpestare la sabbia a riva con maggiore attenzione per rispettarne le trame, la tessitura e le modulazioni di una natura che crea spettacolo dal nulla nelle tante dune eoliche create durante le tempeste di vento e mareggiate, uguali nella classificazione e definizione nelle parole del padre. 

Un mare di ricordi.

Delle stesse memorie è bagnato il suo presente.

La natura non crea nulla per niente.


Ritorna sulla coda della mareggiata che sperimenta davanti a sé e che va amalgamandosi ai suoi ritmi. Se ne bea della tanta armonia che si appropria di lui e del ritmo dell’oceano. Poi, lentamente, la melodia del mare che ha scatenato si attenua. Il flusso interminabile di tornare e ritornare di sponda in sponda si interrompe più a sud, verso la costa frastagliata che nasconde, alla sua acuta vista, il minuscolo fiume d’acqua dolce: un rigagnolo - già esperito e che quindi deve continuare ad esistere indipendente da sé -, a tratti irruento dei tanti temporali estivi che precipita partecipativo nel mare; ben altra cosa delle tracotanti righe di parole che scorrono come un fiume in piena sulle pagine al suo fianco. Più giù, nel tratto di mare che traguarda da sotto la copertina del libro sospeso nell’aria, addosso alla barriera di scogli di origine vulcanica pieni di riccioli taglienti, si sorprende nel vedere le altre onde che strabuzzano il tetto biancastro delle creste in una miriade di schizzi che sfiammano ulteriormente la sinfonia e l’aria dell’ultima caldaccia estiva. 

L’aria continua a disgregarsi e a ricombinarsi sotto i colpi di un sole accecante, e i flutti, che vede ricomporsi davanti a sé, avanzano innalzandosi in tanti boccoli dalle creste spugnose che iniziano ad avvolgerlo, a preoccuparlo, anzi, lo impauriscono. 


Gli attimi di coscienza finora riconosciuti si trasformano un maremoto di emozioni, di angosce che non riesce più a manovrare, a fermare. La loro messinscena, che si allontana, una volta partorita, dalle sue intenzioni iniziali, è un susseguirsi di affanni e sbuffi, un’accozzaglia di ringhi e sberleffi, di paffuti schiaffi e perfide carezze, e queste alterazioni psicotiche, che d’abitudine controlla con normali dosi di meditazione o di benzodiazepine, li avverte come una brezza salmastra che sente avanzare perniciosa verso di lui. 

La sente che picchia sul viso e ghiaccia le emozioni cristallizzandole in forma di pensieri contorti e intuizioni di amore e di morte; un binomio fatale che all’improvviso avvampa dentro, nell’Ombra che riemerge, nella luce muta di uno strano terrore. Quest’ultimo sentimento che ha già azzoppato varie volte il suo tenace spirito altruistico e che conosce molto bene dopo la strana morte della sorella scomparsa quand’era ancora adolescente, gli arresta il respiro appena avverte che sta per trasformarsi in una nuova sventura. Sventura che nella sua mente prende la forma terrificante di un’immensa matassa fluida color cremisi, un groviglio sanguinante simile ad una nuvola riccioluta e densa, una pozzanghera d’aria colma di firmamento sbranato in piena metamorfosi che pencola vischioso nel vuoto. 


L’aria infuocata prende il sopravvento sull’acqua. E questa combinazione umorale lo stravolge. La sente crescere nel suo cuore accelerato ed esplodere, disciolto, in un principio di soffocamento. D’istinto porta la mano alla gola per liberare e prevenire la sua fame d’aria, ma quasi si strozza nella presa troppo stretta. Solo il sorriso che appare davanti ai suoi occhi della sua germana nei giorni meno sofferenti lo rincuora e lo porta a rilassarsi e ad allentare la presa. Non è mai riuscito del tutto a risolvere la sua dispnea psicogena e la sensazione di morte imminente che lo colpì alla vista del corpo della sorella steso sul marmo coperto da lenzuolo verde dopo il brutto incidente. 


Al solo pensiero non riesce a respirare. 

La vede riaffogare nei suoi occhi colmi di lacrime.


L’acqua è l’elemento dirimente. Il desiderio di incontrarla si trasforma nei volteggi che sente sopra di lui. Nel tormento si abbandona alle sue carezze per placare la sua solitudine senza fine. Prova a vedersi dall’alto, ad uscire dal corpo e a liberarsi dei vincoli della terra, dell’aria e dell’acqua e stare lì con lei, così sospeso nel vuoto per riabbracciarla nella totalità dei tre elementi. 

Ma la fiamma che alimenta l’affettuosa tenerezza nel ricrearla vicino a sé è labile. Non la sente più. La sorella questa volta non è lì con lui. Immediatamente quel sentimento affettivo si trasforma in rabbia per averla persa ancora una volta. Devono essere stati proprio i tre elementi primari ad agitarlo e a soverchiarlo non riuscendo a riscaldare il fuoco dell’anima. 

Si dispera, è fatto così, tutto in lui, anche il metafisico, l’inverosimile deve quadrare. Prova ad alimentare la scintilla che non si è mai affievolita nell’Α-Θάνατος, lesto aggiunge il fuoco interiore per completare il quadro ippocratico della tetralogia dei temperamenti umani. Pitagora e la sua simbolica tetraktis lo tengono ancorato al suolo, pur sentendo venir meno il vertice della piramide.

Fire walk with me!

 

Il fuoco divampa all’istante. Provato dall’estraniamento, ritorna in sé appena riesce a nascondere nel profondo le contorte visioni che ha percepito all’improvviso. L’altrove ritorna ad essere equidistante dal sé stesso smarrito e dall’unicursale labirinto che punta dritto al suo cuore pulsante che brucia. 

Si rende conto che fa fatica a restare vivo. 

Sente il suo cuore battere fuori dal corpo. 

Si volta, cerca ancora la sorella, ma cioè che vede non è altro che sé stesso.

Avverte forte che un’altra creatura palpita in lui.

Non c’è nessuno, e non può essere lui. Si sente estraneo a sé stesso.

Sarà l’uomo della sabbia. Der Sandmann continua a tormentarlo.


Il deviante è di nuovo affiorato, addirittura uscito.


Riparte da lì, dal centro vitale di quella profondità organica, ma l’equidistanza riporta il mostro che abita i propri abissi a farsi carne, a lottare per emergere dalle proprie acque profonde e a continuare ad uccidere sé stesso nel fuoco primordiale, con mille fisime, nel fisico e nell’anima.

Prova a placare l’ansia ritornando a specchiarsi nel ritmo delle onde.

Ma lo specchio d’acqua ora è una pozzanghera minacciata dal suo intenso fuoco. 

Riosserva la frequenza dei flutti e la consistenza dell’acqua ridiventa semplice sudorazione: perspiratio insensibilis. Percepisce la fluidità dei propri liquidi umorali e li sente rimpantanarsi fuori dai polmoni. Provare ad abbeverarsi nella stessa aria respirata e buttarla fuori per ricondensarla verso le onde è un tutt’uno con la sua singolare appercezione. Le materie evocate si sovrappongono.

È ancora sostanza pensante e fuoco, io elementale e globo luminoso.

Doppelgänger all’ennesima potenza.

Ora sa che il terribile senso di distruzione di sé è in atto.

 

Perso nell’infinita identificazione guarda ancora una volta, nel loro lento susseguirsi, le onde avanzare mitigandole in emozioni, e più le osserva, più le sente tramutare in risacche che ristagnano nella sua anima in sentimenti corrivi. Riavverte la salsedine attecchire sul più debole dei sentimenti che accende la sua benefica consapevolezza e la fluida vitalità; lo sente trasformarsi in muditā verso la moglie al suo fianco sempre più incantata dall’ultimo racconto di Jeff VanderMeer “Colibrì Salamandra” che legge avidamente. Rivede nel titolo il mostro paracelsiano evocato e appena creato nei suoi meandri interiori. In un lampo quel doppio animale sostantivale lo percepisce come una chimera reale, un mostro mutaforme. Forse quelle due parole percepite come un unico sintagma sono sia il portavoce verbale della recente sensazione sull’icore che vede comporsi davanti ai suoi occhi, e sia la materializzazione di quella percezione ostile esterno a sé. 


L’intorno inizia ad essere contagioso, ora l’avverte denso, vischioso, dentro e fuori di lui. Ringhioso sopra e sotto di lui. Inizia quasi a sentirlo, ne avverte i rantoli. 

Si chiede se è una sua creatura mentale o se è reale, materia legata a un segnale di un chiaro avvertimento di pericolo imminente o se la copertina che vede tra i polpastrelli della moglie è un’istantanea grafica che preannuncia quella assurda visione delirante o se ciò che percepisce come altro da sé è la sensazione altrui o di altri sé, o se questo è il primo segnale che è giunto il proprio momento o, ancora, se invece di analizzare semplicemente il mostro d’aria e umori che vede crescere, questo è il segno che deve attivare una sorta di nefelomanzia oppure qualche altro accidenti esoterico che gli sfugge, o deve mettere subito in atto una forma più potente, una specie di bibliomanzia o una sortes sanctorum, un auspicia ex caelo o qualche altro diavolo di stratagemma da trascrivere e leggere tra le pieghe della sua attuale dimensione allucinatoria, la quinta, obliqua ed esponenziale. 

 

Scosso dall’entropico intorno e dal visionario libro stretto tra le mani dalla sua donna, vede le dita sinuose di lei allungarsi come tentacoli da calamaro gigante a soffocarlo: è l’unus mundus che abbraccia la psiche e prende le forme della materia più terrificante. Comprende che il mostro è quasi uscito del tutto dalla sua testa e si sta manifestando contro di lui anche attraverso il libro. Nello stesso istante avverte la brezza che s’aggrazia tra la plasticità del suo antico struggimento, la romantica Sehnsucht che, per l’occasione prova a modellare come alleata e ad espanderla in fortuna protettiva, in un fuoco d’amore verso i due figli intenti a giocare a palla intorno a loro sull’ampio arenile soleggiato. 

Stacca gli occhi dal libro e osserva i due gemelli sgambettare. Approva la loro disattenzione alla sua imperante aticofilia che oggi è troppo aggressiva e lotta per soffocare l’indifferenza e il cinismo di una natura che nel frattempo si sta materializzando in forma di mostro che sta per divorare tutte le creature a sé vicine. 

La Natura! L’infinita ed elaborata evoluzione e metamorfosi dell’essenza, dell’Essere in sé e per sé, la concreta fusione tra mondi reali e immaginari, l’evoluzione in una nuova specie atomica, materica, sta perpetrando un salto extra biologico: zoonosi pura.


Ecco, la trasformazione è iniziata in lui, diviene il nuovo cambiamento del mondo. La natura che è in sé ritorna selvaggia sta prendendo la forma della materia infuocata, la malizia dell’aria corrotta e urticante, la consistenza venefica di condensa agghiacciante, la viscida porosità di agglomerato spugnoso, la compattezza argillosa di massa rifulgente, la glaucità di minaccia nauseabonda, la ferocia di nuvola distruttiva, nuova essenza aggregante. 


Un vortice di materia incandescente e rutilante.


Tutto il pessimismo che fine a poco prima presagiva e avvertiva crescere solo nella sua mente come rapporto costruttivo e autodistruttivo della natura dentro e fuori di sé, ora è realtà, è davvero là fuori, vortica in una ridda come una muta di dervisci posseduti che aprono le loro vesti simili a meduse urticanti per ammaliare ogni individuo, ogni animale e divorarlo, immergerlo in una risacca nell’universo più nero, in un’onda mutaforme.

L’éidõlon di sé stesso è pronto a divenire carne, frattaglia, minuzia, olismo dinamico, spillover: mutazione continua.


E all’improvviso può incominciare la catastrofe cosmica. 


Ormai, non può più fare nulla, quella cosa è lui ed è più grande di lui. 

Esistono cose che non esistono fino al momento prima, ma subito dopo, nella successiva, si è già un’altra cosa.

Decide di fagocitare ogni cosa e di farsi fagocitare.

Davanti ai suoi occhi quell’informe massa macrofaga inizia realmente a riframmentizzarsi, generata dal nulla fluttua sulla superficie del mare e si espande veloce da lui e va verso di lui e la sua famiglia. Più ne è parte e più si rende conto che ora non è più lui a generarla. È tutto l’intorno che evolve, l’immensa essenza del cangiante è subordinazione, acquiescenza. Ne comprende la virulenza e l’aggressività. 


La trasmutazione è un atto creativo immenso, non può essere frenato una volta partorito da una mente audace e corrosa dalla voglia di creare mostri per liberarsene.

Cioè, in quella mostruosa creatura e nei tanti schifosi bubboni e organismi febbricitanti che appaiono morbidi e cremosi, c’è un calcolato inganno e una ferocia che si rafforza con la paura altrui e l’innato desiderio di autodistruzione, una sorta di verecondia e imbarazzo, di lascivia e satiriasi e di altre degenerazioni umane che creano una involontaria spinta a sentirsi posseduti e a possedere, di divorare le cose e a lasciarsi morire, di divenire altro da sé, onnipotenza fisica e a disperdersi; e tutta questa altalena di sentimenti e inclinazioni innate crea e alimenta un immenso essudato canceroso che riempie ogni spazio vuoto apparendo come un’enorme empiema ricco di amiloide. 


L’intera natura si ingegna nell’arte della dissimulazione e del paradosso biologico. Ma è proprio con tutte queste discordanze che agisce e raggiunge il suo obiettivo, una tattica per mettere in atto la subdola strategia che la fortifica e la trasforma in una meraviglia che incanta o in una formidabile creatura che ti seduce mentre ti incorpora, ti ammalia mentre ti divora, ti concupisce mentre ti distrugge. Il mostro ha dalla sua la genialità ingannevole dalle mille forme incantevoli per affascinare e attirare la preda. 


È materia che soccombe, è materia che incombe. 

È un’onda che cresce, cresce.


Appena se ne accorge il panico prende il sopravvento. 

In un lampo avverte che quell’icore tremulo e purulento, che freme viscido e appiccicoso davanti ai suoi occhi spalancati, cresce a dismisura e resta ben sospeso nell’aria in un organismo biologico complesso, un chiaro fenomeno di entanglement biochimico, la perfetta dimostrazione del realismo locale. Deve essere la sua forte essenza eterica ed elettromagnetica, una sofisticata creazione quantistica di aggregazione biologica e materia distruttiva che si allarga e si restringe come un’onda stazionaria circolare, sferica e ovoidale, una interazione e una risonanza di fase di particelle reali che sembrano non esistere, ma che riescono paradossalmente a riconoscersi e a interagire per mantenersi in equilibrio e occupare lo spazio, ad alimentare il vuoto assoluto, restando a distanza da qualsiasi possibile diversa minaccia molecolare.


L’imponderabile assume l’aspetto delle cose nate da sé e che si trasformano e interagiscono istantaneamente sotto la spinta dei propri pensieri contorti. Il principio telepatico lo attrae da sempre. Nell’attimo successivo coglie la potenza in atto di quell’essere “senza forma”, ma pur senza forma è l’essenza dell’energia e della massa. È materia infuocata e contiene lo spazio solido, liquido e aeriforme. Nel nuovo confronto e nell’analisi dei tre elementi: cielo, terra e mare, che lo circondano e lo determinano, realizza che l’oceano, ovvero, l’intera massa d’acqua che poco prima gli appariva carica d’inimicizie nei suoi confronti, non gli è mai stata realmente avversa, anzi, quell’immenso e simbolico liquido amniotico, attirandolo, lo riassoggetta a sé, alla sua volontà espansiva ed empatica, alla riappropriazione della propria materia formativa e primordiale, al ribollire dei propri impulsi interiori. Ora è certo, quel grumo sospeso che cresce a dismisura non è solo materia fluida. La osserva e l’aria ristretta diviene fuoco, magma luminoso e gelatinoso. 


Prima che l’acqua ritorni senza fine equale, si accende.


Sentendosi così aggressivo nei confronti di quell’ammasso rosso sangue, rimodella l’attenzione verso l’intrinseca potenza distruttiva del mare. Abbraccia il tempo e invoca, provetto augure, Thalassa e Ponto di proteggerlo. Risaluta, come fosse a sé sorella, ogni cresta d’onda, ogni vertice bianco che prima vedeva avanzare arcigno verso di lui. Ora, pur di condividere con l’Oceano la ribellione alle forze misteriose e potenti che si apprestano a distruggere l’umanità sulla terra ferma, le trasforma in schiume taglienti e dentellate, che assumono, nel bianco apice triangolare, la vertigine del becco, della lama o dell’artiglio che cerca di graffiare, lacerare e arpionare quella matassa disorganica che nel frattempo si sta trasformando in tante surreali forme incandescenti sospese a mezz’aria, in un agglomerato meiotico che si sta concretizzando in un nuovo trionfo del surrealismo, in un’immonda e immensa creatura simile alla visione di Max Ernst nell’«Ange du foyer»; ovvero, lui lo vede trasformarsi in un mostro antropomorfo che si attorciglia e si riaccorpa in un gorgo infinito allungandosi e restringendosi in ogni direzione in un microbiota e in un daimon universale che divora la carne e le aggrega in un informe massa di creature sottomesse, in una eggregora disarmante, in un immenso sacco coriale di corruzione biologica e sociale, in un enorme babbano che marcia ricco di misteri disturbanti, restando prigioniero nella fede e nella speranza che svanisce. 

E tutte quelle espressioni surreali e sgargianti, la molteplice pareidolia che interagisce in lui e con lui, si mostra per ciò che sta diventando: un ammasso invasivo pieno di pance rigonfie, bocche dilanianti, ghigni aberranti, occhi spalancati e stralunati, nasi appuntiti e adunchi, denti aguzzi e cuori ribollenti e mille altre forme di metafore contorte con i quali il suo cervello psicotropo e super attivo che poco prima era semplice fantasia per ammazzare l’apatia di una giornata assolata, ha trasformato in un pericoloso e vaporoso magma distruttivo, portatore di morte, il volto della guerra tra esseri ostili e corrotti che esplode in continuo in questo ricorsivo, triste e nuovo ventennio e non solo interiore. 

 

Le fantasie sollecitate dalle sinapsi incandescenti non riescono più a spegnere l’angoscia delle forme mentali estranee a sé che si spostano nel tempo e nello spazio e generano il destino dell’essere che vive grazie alle paure, angosce, fantasie e illusioni e all’attrazione del pericolo. Sente che questo pericolo è imminente e che il suo futuro è arrivato al capolinea e lo sta materializzando nella pseudo forma di placenta informe sospesa nel vuoto che non vuole farsi contaminare da altre acque e dalla terra. Capisce che niente può l’acqua marina contro quella vasta e sconfinata massa rossa che avanza ringhiosa e appiccicosa come lava infuocata; riconosce che il mare non può arpionarla e tirarla a sé tirandola giù nelle profondità degli abissi a far compagnia al Leviatano e rinfrancare la Terra da questa invasione aliena che lentamente lo scompone e inizia ad attirarlo a sé. 

Nella veloce disamina che circoscrive, nel territorio intorno a lui, il proprio smarrimento, comprende che non è più l’acqua alta che lo terrorizza, ma è quella massa che in un baleno ha riempito la costa e si sta impossessando di ogni forma di vita, inghiottendola. È una forza superiore e ora gli sta facendo aprire le braccia e spalancare la bocca obbligandolo ad assumere la posizione di apertura, di sottomissione, di resa. Ogni tentativo di ribellione gli immobilizza l’intero corpo. Ognuna delle sensazioni di sé diventa liquido rosso che si smembra, si riaddensa e si lascia inghiottire. 

Diviene puro Archè. 

Parte della natura che sta modificando, la realtà osservata, ovvero sé stesso che muta. 

La paura ha una sua aura e la materia è un calcolo combinatorio, questione di equazioni. 

Dove c’è materia c’è geometria, aritmetica, matematica, equazioni di equilibrio, incognite da valutare, numeri che sottraggono, quantità che dividono, insiemi che moltiplicano.

Nella valutazione sente che presto scomparirà e si trasformerà nel mostro globulare e luminoso che osserva con terrore. Forse lo sfiderà, forse l’esitazione e il disprezzo non basteranno ad invertire la sua peritanza. Ma nell’inconsistenza del ragionamento per un attimo sperimenta la sicumera che prevale sull’albagia, poi l’istinto di conservazione lo fa rattenere. Nell’ipotetica conversazione con quell’essere sfodera altri costrutti pensandosi immune al terrore. Ciò che finora era, il dottor Mark Rotarg, bioingegnere al MIT di Boston, io, forza virile, robusto corpo di un uomo in piena attività fisica che fa squat e pulldown, ogni santo giorno che Dio manda in terra, ora è evanescenza, disgregazione di sé, mente estesa, massa gelatinosa senza scheletro, poltiglia senza anima, siero senza sostanza aggregante, umore galleggiante, nuova vis biologica, nuova essenza vibrante, entità disconnessa dal proprio centro vitale. Non si percepisce più come un essere integro, un organismo biologico risonante intatto e coerente, ma una miriade di proteine e amminoacidi sparsi e dispersi in un cordone ricco di filamenti di pensieri contorti e conturbanti. Un insieme di brandelli galleggianti che prendono la via di fuga per riaggregarsi in altre strutture biochimiche, umori assoggettati a pensieri che lo tengono in tensione, in una seducente formula magica di intelligenza estesa, cognizione e agnizione materica. 

Il mare oscuro della consapevolezza, del mutamento, del perturbante. 

L’atavica lotta tra la volontà e il desiderio, tra il nulla e il caos.

L’antico tremore dell’aria. Il vuoto assoluto. L’annichilimento del sé.

 

Preda della disconnessione sa che assumerà la forma distruttiva e addensante che vede davanti a sé e che rintrona, in un minaccioso brontolio, in un ringhio continuo e un orribile respiro rauco che è impossibile non ascoltare senza tremare. Poi avverte che il passaggio è avvenuto. Ora è altro. Si sente parte del cambiamento, nuova essenza e immersione totale nel poliedrico ed evanescente essere proteiforme.       

Nel pieno dello sconvolgimento interiore e materiale, con la ghiandola pineale che brilla immersa negli altri elementi neurali sparsi dappertutto e che entrano in contatto chimicamente con altri gangli connettendosi in un’unica enorme forza, comprende che anche l’immensa nuova massa aliena è natura, è creato, è vita, parte e parto di un mondo successivo, alternativo, di un nuovo fenomeno cosmico, di un nuovo lui, di nova essenza potenziata. E mentre si accorge che il vecchio sé è morto nella commozione dei propri pensieri ricchi di idealismo e orgoglio, di appartenenza cromosomica e razza evoluta, di gregge sapiente, di eredità antropomorfa, di evoluzione di specie, riesce a dire ad alta voce con la virilità compromessa:

Tutto questo meringhio mi inghiottirà, anzi ci inghiottirà, e forse non sarà un male

Le ultime parole divengono un boato di fonemi in fieri.  

Una frase perfettamente pronunciata e sospesa nel nulla di quell’agorafobico cortile interiore dei sensi che si stanno appannando, parole che vagano tra gli elementi coinvolti e partecipano ad alterare il resto della natura che si ingegna a scombinare e ricomporre i propri organismi viventi in altri comuni termini e riconoscibili o in suadenti sciarade, in sfavillanti logogrifi, in folgoranti metagrammi, mesostici accentratori e altre bizzarrie fonemiche e nuove e più potenti creature: il verbo. 

Incredibile, però, il neoingegnere, l’uomo di scienza sotto stress, nell’allucinazione più totale e nel cambiamento estremo è riuscito a coniare una nuova parola, un neologismo che non servirà a niente e a nessuno, un sostantivo senza possibilità di annoverarsi il diritto di creare nuovi sinonimi e contrari, un lemma con il quale costruirci un racconto new weird o imbastire uno storytelling istruttivo o semplicemente un neo-vocabolo con tanto di hashtag da condividere sui social: #meringhio. 

 

Nella frammentazione del sé lentamente riesce ad aggregare il lisergico trisillabo piano davanti ai suoi occhi e nel riconfigurarlo per l’ultima volta, lo percepisce come un meme, così come percepisce il viso scavato del suo professore di lingue antiche che sorride al suo neologismo appena sfornato: «Meringhio». Lo vede che sorride e dinoccola ripetutamente la testa in segno di approvazione e ammirazione. 

Poi gli occhiali tondi, gli occhi soddisfatti e la barba del Prof così come sono apparsi scompaiono nell’imminente passato remoto; nel presente reale, invece, lui continua ad aggregarsi e a disgregarsi; nel mentre, ai suoi cari, non può segnalare né l’atroce tragedia incombente e né la dolce scoperta letteraria. Anzi, nella puerile analisi etimologica, comprende che ha anteposto il suo “Me” a un concetto di ballo/sballo, dolcezza e canto/scanto, misto alla rabbia e al movimento sincopato del suono armonioso e alla danza di quell’essere davanti a sé che lo ha messo alle corde, legando però, alla sua, solo la parentela di altre creature mentali, la famiglia dei tanti vocaboli che vorticano nella sua mente contorta e alchemica: “Mercurio/Merengue/Meringhe/Ringhio”. 

La Mousiké è vita, ma il silenzio che genera in sé è meraviglioso.

 

Nessuno si è accorto delle sue ultime parole pronunciate, così come nessuno dei suoi cari comprende che sta per giungere il proprio momento. Riesce solo per un nanosecondo a prendere le distanze da quell’immenso globster che percepisce semplicemente come nuovo «Sé», parte della “Cosa” che si smembra e staziona dentro di sé e sopra gli altri, e nello stesso momento non riesce a nascondere sé stesso e né i suoi familiari dai contagiosi vortici di quell’infiammato fluido rutilante che è altro da sé. 


Non trova una via d’uscita.

La via non passa solo per il centro, di sé.

Il perturbante è sempre in mezzo, nel centro vitale del mondo intero.


Perso tra i dialoghi interiori e i pensieri accomodativi, si rende conto che non riesce neanche ad urlare ai suoi piccoli di scappare. In lui è ancora forte sia la sensazione fisica del suo corpo disteso sul plaid e sia la gioia come padre che li ha portati con sé al mare per farli divertire. Talmente è forte la sua evanescenza interiore che gli resta ancora tra i piedi legata alla sua sensazione fisica. Così come avverte che il consueto picnic pieno di felicità ha preso la piega della tragedia. 

Per non spaventare i piccoli, riesce, con quel che crede essere ancora il suo pugno invincibile, ad allontanare il pallone che uno dei gemelli ha svirgolato verso di lui. Almeno questo crede di aver fatto, perché non è del tutto cosciente che la sua forma d’uomo, quasi svanita nell’aria, sia ancora l’entità corporea, terrena, piena di forza muscolare, di coscienza virile e d’immaginazione materica che lo definiva come Mark Rotarg; di fatto, si sente come un fluido trans-biologico, una polvere cremosa e gelatinosa di desossiribosio, di guanina, timina, citosina e zucchero pentosio che si sta trasformando nella nuova massa colloidale che lo ha inghiottito a sé. 

Misteri della biochimica.

Nei brevi tratti d’evanescenza capisce che è rimasto solo dal momento che ha osservato rapito quell’enorme fluido rosso, che ora è il suo corpo svanito; con un attimo di distanza dalla percezione reale dei sensi, sotto i vestiti, ha iniziato, lento e corrosivo, l’avanzata metamorfosi. Apuleio, nelle letture scolastiche giovanili, lo aveva messo in guardia dal lasciarsi coinvolgere dalla propria instabile coscienza e dalla propria reale forma animale: si è ciò che si osserva, si assume la forma dei propri pensieri.

L’anima ritorna ad essere sempre al suo stadio primigenio, l’Animus: animale.


Adesso che non si vede più in un corpo umano, ma ne avverte i fremiti e i palpiti che hanno sconquassato ogni suo piccolo tratto muscolare prima dell’irrigidimento generale, sente di essersi trasformato prima in un blocco unico, come gli elementi biologici che immergeva nell’azoto liquido durante le lezioni di chimica e successivamente come polvere liofilizzata. Sente che anche i peli sulle braccia sono diventati irti e non per la paura; li ha percepiti mentre crocchiavano in minuscoli trattini simili a spaghetti di grano duro che la madre spezzettava per farne minestra di ceci fitta. Finanche l’astratta parola “fitta” gli si è sostantivata facendosi avvertire tra le costole, per poi farlo rantolare contorcendosi scomposto quasi affetto da bendopnea.


Il male dura poco, il malessere è eterno.

L’istante è un attimo, l’ora è fatale! 


Ora che le diverse sembianze si sono alleate alle apparenze e il suo corpo non è più steso a terra a cuocerci sotto al sole, non trova più le forze che lo liberino dal sortilegio. Nemmeno la tardiva bontà dei ricordi e gli istanti della dolce infanzia che lo hanno immerso a rivivere piacevolmente le prelibatezze culinarie preparate con amore dalla mamma, sono riusciti ad addolcire il disastro in atto che gli asciuga ogni memoria retroattiva, quella ultima, finale, che fa rivivere ad ogni essere umano l’intera vita a ritroso, mostrandogli ogni colpa, ogni piacere, ogni emozione, ogni amore. 

In questo stato di animazione sospesa nel vuoto, ovvero, nello stato di risucchiato, si è reso conto che anche la moglie si è irrigidita con lo sguardo fisso verso l’enorme nube cremisi. Da lì a poco quel che prima era solo lui e adesso l’enorme bubbone marcescente, cioè un enorme lui e altri esseri dentro di lui e nello stesso istante tanti parti di lui dentro estranei, non più estranei, sa che l’attirerà fino a divenire un nuovo tutt’uno anche con lei, una nuova cosa con un sé molto più grande. E quel sé lo lascia riflettere sull’amore e sulla morte, sulla fortuna e sulla sorte, sul continuare a sentirsi marito, parte di una coppia, intriso di ammirazione verso la propria metà e a cercare di capire se potrà essere, anche con lei dentro di sé o lui dentro di lei, ancora un’unica entità naturale e spirituale, l’antica figura primordiale della formula sacramentale che sancisce la buona riuscita di un matrimonio “uniti nella buona e nella cattiva sorte”. Eccola la cultura che cerca di ammansire la natura.

Comprende che la può riavere con sé, la rifarà sua. Definitivamente.

Dal sì pronunciato sull’altare passa veloce al frutto del loro amore. Si domanda che ne sarà dei suoi figli, dei due gemelli bicoriali, e pur essendo lui ora un mostro distruttivo, completa essenza divorante, materia biologica contagiosa e galleggiante, immenso flusso violento di una nuova forma pensante e cosciente, si rivede marito, padre, tutore, genitore e responsabile dei due adorabili pargoletti. Ne è parte biologica.

Non può lasciarli da soli sulla terra. 

Deve rifarli suoi. Unirsi a loro, riunirli a sé.

 

Passeggero e pilota del grande verme d’aria appena creato, attraverso gli interstizi delle tante pieghe e dalle fessure dei pori che sono infiniti occhi di vedetta, osserva i due gemellini giocare tranquilli. A loro volta i suoi cuccioli d’uomo non percependo il pericolo che incombe su di loro, continuano a tirare calci alla palla; non si sono accorti di quella massa silenziosa che li avvolge e che oscura il sole. Ma l’avere coscienza di sé e comprendere che il proprio essere è in pericolo è un attimo, quello fatale che apre le porte alla fine del mondo, del proprio mondo. Il secondo nato, avvertendo di essere pervaso dall’ombra e dell’anomalia del mutabile, cerca dapprima il padre senza riuscire a vederlo nei dintorni; sgomento intravede una parvenza di madre impietrita verso qualcosa che la spaventa e che subito terrorizza anche lui. Premuroso prende per mano il fratellino correndo veloce da lei. Toccandola ripetutamente e stanco della sua passività al richiamo disperato della catartica parola “mamma”, non può far altro che seguire atterrito con gli occhi immersi nelle lacrime i brandelli di madre che vengono risucchiati verso il cielo. Sconvolto posa gli occhi sulla soffocante massa che vortica famelica sui loro corpicini, e lì si accorge che già lambisce ogni loro gesto e che presto li succhierà dentro di sé. Nell’attimo che le pupille del piccolo comprendono la distruttività dell’immensa massa putrescente, i suoi occhi si riempiono del magma incandescente; in un lampo realizza che la sua vita sta per essere stroncata, come prima è avvenuto alla madre e forse al padre. Svelto cerca di schermire gli occhi al fratellino con il plaid, ribaltando libro, piatti e vivande, ma non c’è stato nulla da fare, ormai l’intera famiglia è preda e parte di quel magma putrescente, di quella Nube della conoscenza. È l’intera collettività lambita.    

Ognuno di loro è l’universo osservato. 

Tutti e quattro sono stati inghiottiti e riuniti nell’identico corpo che ospita l’anima familiare in un’unica biologica dimora, una nuova creatura che dominerà il mondo, una mente estesa in un fiume di coscienza infinita che trattiene ogni essere dentro di sé e lo trasforma in un intenso flusso interiore che, per i più riflessivi e distaccati, viene percepito come inconscio collettivo, coscienza infinita. Infatti, dentro quell’effluvio galleggiante ognuno è parte del tratto comune e insieme di individui che si comporta e pensa come una indissolubile unità, un cenobio di sottoposti alle stesse regole, un pleroma invincibile e inattaccabile e non più entità disarmonica, psiche disgregata o anima primordiale preda degli eventi. 

Un immenso etere rovente. 

Gregge globulare. 

Plasma psichico universale ad alta frequenza. 


Chiunque di essi, pur essendo unito e separato, avvolto dalla morbidezza e dall’impalpabilità, avverte la propria intima scintilla generante unita a quella di altre immortali emanazioni spirituali e animali, un essere con un ruolo consapevole, nel vivo della propria responsabilità di sopravvivenza e non un parassita della comunione. Lì dentro, confortati dal riparo e dall’abbraccio degli altri corpi umani, di consimili e finora estranei, di malcapitati dalla sorte endemica, della convivenza di diverse bestie e di altri organismi animali, di vittime nell’afflato affettivo, di ogni altra emanazione biologica, ognuno fluisce in un’altra individuazione biologica e mitocondriale verso l’interezza organica di una nuova specie vivente. 

Insieme ci si sente diversi e se stessi e nello stesso momento si ha la consapevolezza di essere diventato una rondine fusa in dottore, una puerpera in un lombrico, un asino in una cuoca, un imprenditore alle prime armi in un pellicano, un poliziotto in un’upupa, una mantide in un micino: insomma, un simbionte dalle mille interazioni interspecifiche. Così come ci si percepisce nella forma ibrida e contrastante, uno strano individuo di terra e di aria, come un grillo che striscia nelle viscere della terra o un serpente capace di volare, una pulce in grado di ruggire o scazzottare come un canguro, un energumeno che può solo belare o un criceto sorpreso ad abbaiare, un povero diavolo che non smette di frignare o un immenso cuore in grado di piangere, di provare freddo o di lasciarsi accarezzare, di contrarsi o lasciarsi attraversare, assaporare, suggere, cagare, bere, pisciare, scatarrare, vomitare. 

Lui ora è tutto e tutti loro i loro miasmi sono dentro di lui. 

E mentre avverte il proprio addensarsi, il sapore degli altri diventa urticante e soave, la pasta d’uomo si amalgama nella fragrante miscela degli umori giovanili di un adolescente, i fermenti lattici del colostro di una neomamma diluiscono il piscio del vicino corrotto, la saliva del prete invidioso squaglia il mestruo del menarca della primogenita del gelataio ambulante, il meconio di un’infante spoltiglia la curiosità di un professore di greco e tutto diviene fragranza profumata per gli impavidi, enorme essenza acidula per gli indolenti, amalgama di fetida merda per i silenziosi, succulento pus cremoso per gli spiritosi, cheratina per gli intrepidi e spericolati, vischioso muco per i vigliacchi e poveri di spirito, gelatinoso piscio per i nullafacenti, cispa per i chiacchieroni, cartilagine per i pusillanimi, nauseabondo sudore per i beati, granuloso sebo per cinedi. 


In preda a questo fermento, d’un tratto, l’entità corrotta che si percepisce ancora come pater familias avverte che l’annessione delle sue creature accentuerà la sua ossessione, che ogni interferenza con altre vite genererà maggiore lascivia e nuova virulenza, l’alterigia diverrà capziosità, l’acribia si adeguerà e prenderà la forma della rinuncia, la deferenza abbraccerà la soggezione, l’amore traslittererà in malore e la condivisione morale andrà in malora. Insomma, Mark, nella sua nuova forma ultra-senziente, avverte di essere contemporaneamente la moglie e i suoi due figli, la tenia della vecchia signora che alloggiava fino a poco prima nel camper di fianco a loro sopra la duna eolica e ogni altro essere unicellulare, i mille insetti e microbi, nonché la moltitudine di animali di terra e di aria che sono lì con lui in metabiosi. 

In quell’immenso universo di combustione biochimica ininterrotta riesce a sentirsi Uno, migliaia di esseri tra delirio e lucidità dell’io, un enorme essere immorale e immortale che comprende di essere sé stesso e l’io degli altri da sé.

Una Pantalassa primordiale e venefica.


Nell’analisi della frammentazione e della metamorfosi del pensiero coatto, parcellizzato, si accorge anche che solo la fauna marina è stata risparmiata alla mattanza terrena. In una rapida valutazione considera i pesci fortunati nonché plausibili sopravvissuti all’olocausto in atto; un istante dopo si convince che invece proprio loro dovranno sentirsi gli esclusi, i non privilegiati, i non designati alla nuova evoluzione della nuova specie animale, perché solo chi disintegra il proprio io diviene parte di uno dei migliori mondi possibili e partecipa all’esplosione della vita e alla meravigliosa prova della natura: rinascita e avventura. 

Nella nuova forma, lui, come i fortunati come lui, considera che non saranno più prigionieri o schiavi della casualità e dell’evoluzione lenta e continua, ma solo variazione improvvisa, eterna clonazione e perpetuo risveglio, brodo primordiale e vuoto cosmico, totalità ed essenza unitaria, molteplicità e indeterminazione, polipresenza e nullità, interezza psicofisica e profonda eutimia.


In questa personale e sconquassante sensazione sa che chiunque si troverà nei paraggi dell’area investita dall’enorme onda magmatica, ne subirà il fascino e ne resterà rapito. Ogni sguardo che si poserà sopra i tanti brandelli di materia che ora contiene ed è sé stesso che si lacera e diviene frammenti multi-copia di tanti Mark, ne diverrà parte indivisibile e inindividuabile. Simili a fotoni gemelli che si attivano nel medesimo istante a distanza, ogni sottile fremito legato a flebili respiri e piccole contrazioni, metterà in contatto tra loro la diversa trama e rete di lacerti che inizierà a ribollire nel flegma, senza riconoscere più testa e piedi, dorso e torace, unghie o artigli, braccia o zampe, pelle e peli, piume o squame, sesso e coda, solo enorme DNA cosciente e scomposto, rimodellato a somiglianza di nessuno e di tutti gli esseri viventi contenuti e divenuti.

 

Mark, nella frammentata distinzione di sé, avverte che la distanza all’interno dell’ammasso globulare è annullata, ognuno è al centro del corpo informe dell’ectoplasma e nello stesso istante sui bordi esterni del plasmalemma. Presenti lì con sé e dentro di sé avverte la bizzarria dei cavalli e dei moscerini, la tenerezza dei grilli e delle talpe, le leggiadria delle donne e dei bambini, l’ingordigia degli scoiattoli e delle formiche, l’aggressività dei rozzi di spirito e di miliardi di virus, l’ottusità dei bruchi e delle galline, le arroganze delle volpi e dei pipistrelli, la temerarietà delle tartarughe e delle civette, la cocciutaggine dei topi e dei centopiedi, la polifrenia dei vermi e dei piccioni, la malinconia dei cani e dei coccodrilli, la caparbietà degli asini e degli scarafaggi, i disinganni dei colibrì e delle salamandre, già, le salamandre alligatore stampate sul libro e altre e altre forme legate alla determinazione, all’alterità e alla casualità, alla musoneria e all’euforia della vita che lo stanno facendo essere nello stesso istante membro e membrana, scheletro e citoscheletro, filamento e dendrite, vescicola e mondo extracellulare, preda e predatore del polimorfismo che ricaratterizzerà i propri nucleotidi, trasformandoli in variante rara, diversa, semplice CODIS, elementare singolarità nell’ammasso globulare, continuando a bivaccare nella propria consueta coscienza personale e collettiva, parte e diversità in un equilibrio biogenetico, dimora e ospite di una nuova e avvincente Arca Sacra.


Eppure, pur essendo assurdo, dentro questa sorta di mostro alieno, nulla è disordine, entropia o distruzione, l’insieme è innovazione biogenetica e ognuno è parte della trasmutazione, ogni creatura è un permanente multi-individuo e unica essenza pluricellulare, totalità è parte necessaria e vitale di un immenso cosmo intergenico, totipotente. Diversa evoluzione delle precedenti specie terrene, caos deterministico, forma biologica che sa essere espressione mitologica di una nuovissima rappresentazione zoofora. In questa continua metamorfosi organica ogni essere vivente indipendente dai propri geni e dalla propria individuazione culturale e del daimon dominante potrà percepirsi come un mostro o una figura mitica, un essere reale o immaginario, un’allegoria vivente o un’immensa chimera, una blasonata anfesibena o una divorante echidna, una anguicrinita gorgone o una diabolica idra, uno sgambettante sciapode o una velenosa manticora, un elegante centauro o un fiammeggiante qilin, un piumato grifone o una dorata leucrotta, un orecchiuto panozio o uno scapestrato blemma, un filamentoso ectoplasma o un fluorescente fantasma, una errabonda larva o un informe bardo, un angelo puro o un ostile demone, oppure semplicemente una onnipotente e rancorosa divinità, un nuovo Dio o il Nulla.


Dio santo quante cose un individuo pensa di essere per liberarsi del perfido sé?! Quante false individuazioni bisogna proiettare di sé prima di percepire di essere morto o passato all’altro mondo?! 

Mark, per quel che ancora percepisce in lui e fuori di sé, si accorge che oltre ai pesci non avverte traccia, o forse sarebbe meglio dire non sente la presenza neanche degli elementi vegetali e degli stabili elementi minerali; loro, i diversi, evidentemente, non vengono risucchiati e coinvolti da questo potente magma biogenetico che, anche se saturo di esseri che fino a poco prima vivevano lì intorno, continua a crescere e assomigliare a un arcipelago piena di fragranze, di sapori, misticanze ed essenze che naviga nell’atmosfera, un’enorme ameba chaos che fermenta, si squaglia e si riaggrega e che cambia entità e fisionomia appena ogni substrato incontrato, viene coinvolto. Tutti lì dentro sono nello stesso momento se stessi e l’immenso meringhio e ognuno freme, vibra, fluttua a suo modo nell’intenso respiro dell’altro, vive nel corpo lacerato dell’altra percependosi vittima e assassino, custode e aguzzino, carnefice e giudice, parte di un infinito sistema combinatorio, una fusione di universi e di mondi, una permanenza costante e arbitraria, una variazione continua e caotica, un oceano di provvisorietà e un’aberrazione della medesima essenza, un insieme indeterminato e allotropico della stessa sostanza, un universo di interezza e frammentarietà, un eterno intervallo di espansione e di spazi adiacenti pieni di nuova inesistenza, un imponderabile vuoto quantistico esistenziale ricco di antimateria, un’esplosione di mondi innominabili e ognuna di queste considerazioni, ben percepite e determinate, quasi tassonomiche, gliele suggerisce la filogenesi e la sistematica cladistica dei viventi che fermenta in lui e con lui in nuove omoplasie e sinapomorfie. 

Il Brodo primordiale è sempre in atto.


Nulla è mai la fine del mondo.


Un mondo sempre sconosciuto a chi cerca di seguirne il corso ma che si fa corrispondere nel momento che si lascia percepire e desiderare, e quando si riesce a comprenderlo, non è un atto creativo, perché non sei Dio. Dio crea ciò che effettivamente nasce dalla sua determinazione senza smania di modifica del creato e con altrettanta determinazione decide di distruggere ogni cosa creata, in tutti i piani spaziali e temporali. È un passaggio necessario, unico e irripetibile.

La creazione è una questione di tempo. 

E questo è un limite di Dio.


Lentamente il suo stato d’alterazione, di modificazione, si placa.

Lentamente - è il tempo che crea lo spazio - la grande massa si quieta, la creazione è nella seconda fase appena esperita. Così come si è mostrata a Mark a ridosso del mare, prima piccola, tracagnotta e veloce adesso è enorme e sconquassante. Disordinatamente, si sposta più giù tra le anse della collina, poi su, verso l’eterno Monte Meghiddo. Lì sopra, istintivamente, congloberà a sé altri vertebrati, nuovi tetrapodi, artropodi, bestioline, fate, elfi, gnomi, e altre creature dei boschi oltre all’intero scibile umano ricco di nuovi martiri, disillusi, disgraziati, infelici, flemmatici, sanguigni, fuor di testa, psicotici, stressati, beati, zotici, esaltati, criminali, melanconici, bipolari, filosofi, registi, artisti, scrittori, emarginati, eroi, santi, timorati di Dio e mille e mille altre pecorelle smarrite.


Fra poco, con il suo indiscreto vorticare esploderà verso la vetta avvolta dalla neve e dalle nubi, strusciando tra le querce rosse e i cornioli, poi tra gli aceri e le betulle, infine tra la terra e le radici avvolte dall’intricata rete sotterranea dei funghi. Lì farà sua anche la furbizia degli avvoltoi e il coraggio degli orsi, la destrezza dei cerbiatti e la flemma dei ghiri, l’arroganza e la spocchia dei montanari nonché l’acuta vista delle aquile, la solerzia delle api e la coscienza distruttiva del resto degli esseri umani.

Al pensiero che l’intera razza umana verrà distrutta in un lampo finisce l’autoscopia.

Il ritornare in sé accende nuovi scompensi.

Rifiata. Un lungo sospiro lo riaggrega.

Sente che si è calmato, si sveglia.


Abbandona la dimensione onirica, il salto temporale si libera del sogno.


Riporta in sé l’intorno e le nuove considerazione sul reale.

Fa suo il ronzio di una zanzara vicina all’orecchio destro e si bea del lento indugiare di un minuto curculionide tra i peli della sua gamba arrossata dai raggi ultravioletti. Lo lascia libero di scorrere e districarsi tra la sua foresta crinuta. Ora, ogni piccolo animaletto che incontra è una estesa coscienza infinita di sé. 

La natura l’ha coinvolto nel sortilegio.

Ogni essere è simile al proprio sé.

Osserva il cielo, le nuvole e le altre meraviglie del creato. 

Tutto è cambiato.

Si gira dappertutto e sorride al mondo che lo circonda e che lo inonda.

Inaspettata ritrova la moglie sorridente al suo fianco in allerta per il suo lungo abbandono. Si accorge delle sue attenzioni e gli ricambia il sorriso; nella tenerezza degli sguardi si scartoccia dalla pigra quiete e tende verso di lei, le dà un bacio. Mark tra il meravigliato e il conturbato sente sussurrarsi un dolce: “Bentornato tra i vivi”.


È felice del suo ritrovarsi ancora sdraiato sul plaid tra il via vai delle formiche legionarie che si beano delle briciole rimaste. Chiama a sé i pargoli che sporchi e sudati si avventano felici su di loro. Dell’arrivare sorridenti tra le braccia dei genitori, affaticati e scomposti, neanche a dirlo; il primo calpesta il libro che ha fatto cadere dalle mani alla madre squinternando l’ultima pagina appena letta e strusciando le altre sulla banana che è esplosa sotto alla pianta dei piedi sporcandone i bordi inferiori, l’altro, invece, frena la corsa affettuosa sulla stanghetta degli occhiali, storcendola. 

La Trasformazione del continuo vivere sé stesso nell’altro! 

Il mutamento è sempre in atto ed è svincolato dalla volontà divina!

D’acchito Mark, senza dissimulazione ironica dice sorridente: “Bentornata realtà! Quanto mi siete mancati”. 


La routine ritorna ad essere la perniciosa vita nella sua alienante pienezza. Proprio questi semplici momenti di esistenza coniugale e familiare lo riportano velocemente nel presente tra le anse del reale che sembra incedere tra la monotonia e le pieghe della deprimente consuetudine, lontano dalle sue recenti fantasie macabre e dall’avvincente epigenetica ambientale e dalla fine del mondo. 

I piccoli ritornano a giocare più in là.


L’io ama morire in mille modi e nelle più spericolate forme di avventura, ma soccombere nell’abitudine domestica della realtà quotidiana che assume la fisionomia consolatrice del solito andazzo è il peggiore.

Benché Mark continui a chiamarla “malleabilità fenotipica”, con buona pace per i semplici di spirito e degli accomodanti che preferiscono solo eventi continui e deterministici rispetto a chi li desidera discontinui e probabilistici sapendo di creare l’effetto osservatore e di sentirsi come colui che cambia l’evento semplicemente guardandolo o sognandolo, le precedenti fantasie estreme e le angoscianti e assurde visioni sono pur sempre avventure mentali, reali, deliri di coscienza di sé che ogni individuo deve compiere, allucinazioni e azzardi di micro e macro evoluzione da esperire almeno una volta nella vita, per riformulare la tanta immaginata e voluta pienezza di sé.

La genia del macabro.

Un geniocidio!


Riconosciuto il dirizzone psicofisico momentaneo, ritorna ad essere l’entusiasta bioingegnere che sa come ricostruire e tenere saldo il corpus di paternità e la sicurezza familiare del proprio areale genetico. Come sempre, però, pur essendo maschio alfa, devono essere gli altri a determinare il proprio autoriconoscimento.

Svelta, la moglie, regina del sortilegio femminile, provetta Fòtide, gli accarezza la guancia ammorbidendo del tutto la spigolosità del suo viso in una gioiosa ed armonica forma ovale. La dolcezza se non è scompenso è benessere, cambiamento.

Mark, accortosi della metamorfosi avvenuta per mano della consorte, fiero di sé si tira su, poggia le mani sui fianchi esprimendo così la tenerezza ricevuta da marito nella premurosità di padre e nella piena protezione verso i propri figli.

Ehilà gemelli, è ora di divertirsi. Dai ragazzi, venite da papà, andiamo a fare un bel bagno ho voglia di giocare con le onde! Amore, anche tu, lascia il tuo racconto e vieni a divertirti con noi”.




Franco Chirico

Roma, 12-2022





Proprietà letteraria riservata
© Franco Chirico, 2022


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COLLANA  La Ninninedda 

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