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Racconto ispirato da
Tre romanzi per immagini
di Max Ernst
gli Adelphi, 659
M’aggiro in questa casa ispirata, ma non so più chi sono. Sto cercando di comprendere se devo necessariamente identificarmi in una o nell’altra figura che si contende la soglia, oppure concentrarmi su entrambe, nel doppio me stesso che cerca di capire chi dei due assomiglia alla mia coscienza corrotta e chi alla mente instabile, chi al mio corpo che s’appresta alla morte e chi all’anima che sta per involarsi, oppure se conviene rifugiarmi nella terza, nel mio spirito inquieto, lo spettro che giace supino lungo il pavimento. E ognuno è legato alle tre espressioni dell’essente, giacché ogni cosa si incontra nell’attimo stesso che l’intorno ci trasforma e viene trasformato dalla propria esperienza di essere vivo ed eterno nel nulla che non è esterno alla totalità che si ricombina perché il mondo è, è la dimensione dominante del pensiero.
Più cerco di isolarmi da questa forma mentis e più aumentano i già tanti momenti di violenza generati in uno spazio angusto e più non riesco a venire fuori da questa frontiera inospitale, più entro nel vivo e più resto imprigionato nel passato, in un equilibrio dimensionale di questo lontano 1934. Sono posseduto dallo sguardo della mia coscienza che entra nella mia intimità, perciò sono io l’uomo vestito che sta in piedi al centro della scena. Sento l’aria rafferma, l’umidità delle pareti, la corruzione degli abiti e delle membra frementi che mi fanno prendere la forma biologica della materia mitica. Dall’indulgente esuberanza che entra dalla porta aperta penetra una staffata d’aria gelida che corrompe e sovrasta in una sorta di faisandé l’ambiente e il mio aspetto severo, la stessa sbruffa le mie piume intorno al collo delicato, anche se a voi, distaccati dal divenire diretto, appare come uno schifoso groviglio di carni e di pelo.
Dire che sto soffocando e che vorrei urlare non è corretto. Quel piede sbilenco schiaccia la mia trachea e quella gamba tesa mi attraversa il collo tenendo arcuato e bloccato il mio corpo diafano che fluttua sull’impiantito. L’uscio si è incuneato tra le mie gambe dividendomi in un mondo illecito e cortese. Il candido lino che mi protegge, nascondendo la mia intimità agli occhi dell’intrusa sta diventando duro come marmo, si è avvinghiato ai miei fianchi e nell’indurirsi, ancorandomi al pavimento, calpesta le assi di legno e sta diventando un terzo arto, una gamba zoppa, un turgido membro corrotto. Credo sia vero che quando si inizia a varcare la soglia, appaia un arto fantasma che man mano si accorcia costringendo l’ingenuo malcapitato a claudicare, a non rigare più dritto. Zoppicare, per buona pace degli incapaci a camminare senza scossoni interiori, è buon segno, vuol dire appartenere al demone, sentirsi ospite straniera in casa propria.
Così menomata sento di appartenere all’ambiente, anzi, mi accorgo di essere diventata lo spazio circostante, di essere le quattro mura che mi contengono, lo spazio che mi avvolge. Avverto che ogni cosa è reale e di essere reale in ogni cosa, così com’è reale la mia testa d’uccello e il mio pugno alzato, le gambe divaricate e la mano sinistra che cerca di chiudere la porta. Lo so, dovrei parlare delle piume sul collo che tanto mi aggraziano, del becco che mi conforta e che, anziché strillare furiosamente per la stretta presa sui baveri, dovrei cinguettare a dismisura, fischiare contro quella maschera orrenda, oppure calmarmi e fondere il mio adorabile zirlare al suo volgare gracchiare, unire il mio inquietante frinire al suo triste gufare, ma finirei per fare il verso a me stesso o a me stessa.
Ecco, ve ne sarete accorti, non so se sto diventando donna o se sto ritornando ad essere un uomo, un uomo d’altri tempi con pantaloni di velluto e palandrana, un uomo che prova ad uscire dalla porta lanciandosi verso l’ignoto da accettare o combattere, oppure se sto uscendo da me stesso, dal mio corpo femmineo o se sto per essere inghiottito all’indietro, ritrasformandomi nella donna ignuda che mi contiene e mi partorisce e che ha quasi finito di espellermi restando distesa e inerte, come una dea dormiente in una postura sbilenca, amorosa, pudica, in ginocchio, opposta e legata ad uno spazio cartesiano ribaltato e cogitante.
Sì, questa donna sono io e nello stesso momento sono mia madre che mi sta mettendo al mondo aggrappandosi alla mia collottola e mi genera espellendomi dal suo delicato collo, che è poi il mio collo, il collo dell’utero. Oppure sono io che rientro in lei, mi compenetro a lei obtorto collo ritornando ad essere alterità in un altro corpo, di me che sono Epicasta.
Mi
prende lo sconforto, sento di essere appena nato e nell’istante che mi partorisce perché dovrei essere
già pronto a ritornare dentro mia madre fino a morirci dentro? Perché se vengo
spinto fuori nello stesso istante sono attirato dentro? Dentro questa stanza
che mi rimette al mondo, mentre lotto con tutto ciò che è adiacente al mio corpo,
che mi colloca in una percezione aptica, divenendo propriocettivo e
intoccabile, stretto e liberato. Una lotta tra vivere e morire, tra trapassare ed essere trapassato. La lotta
contro l’amore e la morte, contro Eros e Thanatos.
Forse una
volta per tutte riesco a liberarmi di loro. Apro la porta, apro tutto me stesso
verso l’assurda sofferenza della mia anima straniera che non riconosce il casto
mutamento da madre a figlio.
Mi guardo e vedo il grosso occhio nero sopra il becco aperto, e mi ricordo che da piccolo mi piaceva essere chiamato “Scricciolo” almeno questo era il soprannome gentile datomi da mia nonna Mirka; appena mi rinchiudevo nella mia cameretta sentivo il suo richiamo “scricciolo di nonna vieni fuori cinguetta con me”, ben differente da quello affibbiatomi da mio fratello maggiore che appena scoprì il nome della specie nella classificazione scientifica, mi insultava sempre chiamandomi “Troglodytes troglodytes”. Pur di farlo smettere mi sarebbe piaciuto cambiare sesso, ma questo non l’ho mai detto a nessuno.
Ricordo il mio primo nome da nubile, Khóra, e sono una ragazza madre scappata dal campo rom per non essere mandata a battere dai miei cinque fratelli e violentata da un padre malvagio, e capisco anche che sto ritornando ad essere un “non uno”, una moglie tanto legata a un marito premuroso e una madre che adora il proprio figlio cinguettante mentre lo stringe tra le mani.
Ricordo che ero piccola ai piedi dell’altare e che gli anelli nuziali mia madre li aveva nascosti nella mollica del pane fino al momento del liberatorio «Sì». Lo custodisco nel cuore, come l’amore per mio marito, l’unico uomo che mi adora e che non mi ha mai posseduta. Sono io l’uomo in piedi, l’uomo/uccello che esce da me donna per difendermi dalla grande madre e dal grande fratello. Il mio animo gentile ben s’addice al delizioso e lungo nome Adelphos Hermann Fedrorìch che ho scelto successivamente per cambiare i miei connotati, anche se risuona stonato, da burbero, come la mia carica di primo luogotenente del quinto reggimento. Non sono certo un sant’uomo, quando andavo in missione, mettevo tutti sugli attenti e ai miei ordini, e per dirla più esplicitamente non mi vergognavo di mettere i piedi in testa a chi ostacolava la mia carriera militare. Nell’ultima battaglia, da eroe, ho perso un piede, smembrato da una mina. Quattro giorni dopo non stavo più con la testa. Venerdì scorso sono ritornato a casa dopo una lunga convalescenza nell’ospedale da campo.
Non è più lui. Con quell’occhio nero riesco a vedermi giacere nuda, mi chiedo se in realtà sono io quella che si guarda lasciarsi andare, l’Ofelia mai amata, mai appagata veramente, madre di tutte le lotte, le rabbie. La donna gentile, l’essere distrutto che fluttua nel cosmo delle delusioni, l’altro da sé e sé stessa immersa nella follia che annega nei ricordi. Una straniera in casa propria che si lascia guardare, si lascia toccare, attraversare, calpestare per pietà, per paura di perdere il proprio unico amore.
Tremo nel vedere la vecchia signora mascherata da cattiva consorte che stringe il collo al mio uomo. Ha spalancato la porta e ci ha bloccato sull’uscio non facendoci scappare, anzi ci respinge in casa digrignando i denti verso di me, verso mio marito, verso di voi che ci osservate perplessi. Non capisce che io sono una creatura libera, una creatura completa di aria e di terra. Non ho paura di lei, un uccello non ha paura di volare in cielo avvicinandosi alla Luce eterna.
Guardare la sua maschera, un orribile teschio con le orbite roteanti, mi conforta e nello stesso tempo mi opprime. Non resisto a non guardare il suo volto straziante che mantiene inalterate le tristi intenzioni di Dio, un Dio malvagio che trova sempre modo di personificare il portatore di sofferenza, annunciatore di tragedia. I suoi occhi spenti mi spingono a terra, e di sicuro, sotto l’effetto della sua spinta, precipiterò nella mia procace ed eterna immobilità, nella candida nudità, nelle mie spoglie opime, nella succube tragicità organica che mi fa perire nel silenzio dello spazio e del tempo in una condensazione aorgica, in una misesis inesperibile.
Così distesa lungo il tavolaccio a pochi centimetri dal pavimento, riscatterò le mie membra innocenti, rientrerò in me dal collo turgido, squarciato per mantenere inalterato l’eterno Topos della mancanza e della manchevolezza, mi riapproprierò del mio lato maschile, inconscio che sta staccandosi da me mettendomi i piedi in faccia, senza interrogare la Sfinge che mi porta a tollerare il mio “nefas” incestuoso, che ama e partorisce il proprio uomo nel desiderio di restare creatura ambigua, vendicatrice.
Prima o poi il mio pugno colpirà il teschio rompendo il cranio a quella scellerata di mia madre che prova ad entrare nel mio subconscio scoprendo che sono io che cammino in punta di piedi sull’impiantito che cricchia impaurito nel dubbio che spaventa, e che sono io che voglio farla passare sopra di me, che sono io che ho aperto la porta, che sono io che mi stringo i baveri, che sono io che mi trasformo in mille frammenti di considerazioni in vestaglia da camera, divenendo la figura nera, corpo virile, Mostro di una tragedia incompiuta.
Forse m’illudo nel vedere me in altri, di osservarmi nella duplice veste, nella triplice figura, in un’unica onirica rappresentazione, di muovermi in un collage di sembianze, ma sono io che sono la stessa persona che si riconosce nell’immagine di sé che si rivela avere coscienza di essere uomo/uccello/donna, o la somma dei tre, l’unica figura che reagisce sulla soglia dell’abisso, dell’alcova, che scaccia la morte ristoratrice, vendicatrice, riparatrice, il cupio dissolvi di un essere triplice che vive nel medesimo istante e nella stessa realtà, nella stanza affollata che si identifica nelle tante anime che convivono in essa, un unico essere dalle infinite coscienze che percepisce le molteplicità dell’io nello stesso istante, in ogni angolo, in ogni centimetro di questo tugurio mentale, in questo triste cubicolo d’interezza.
Qui nel momento che mi guardo divengo un grumo che si sfarina in un racconto, perché sento che vivo in questa casa ispirata, ma non so più chi sono.